Una donna setaccia la sabbia del fiume in cerca di oro (foto © Muellek Josef/Shutterstock)

 (foto © Muellek Josef/Shutterstock)

"Un tempo c’era dell’oro nel Fojnica... Tutto il circondario, alla sorgente del fiume nel monte Vranica, al paesino di Fojnica che porta il nome del fiume, e poi verso Kiseljak e Visoko, in tutto il circondario c’erano i raccoglitori d’oro.". Tanto tempo fa in Bosnia Erzegovina c'erano bambini che armati di setaccio si misero alla ricerca dell'oro

05/01/2021 -  Božidar Stanišić

Šljunkari, gli spalaghiaia – li chiamavano semplicemente così, con questo nome: Memiš e i suoi figli. Avevano cavalli, un carro dal largo pianale e una barca sul fiume Fojnica. Dal fiume cavavano sabbia e ghiaia.

Memiš aveva i cavalli migliori di tutto il circondario di Visoko. Molte volte avevo sentito i carrettieri e i contadini che, mentre attendevano il turno per ferrare i propri cavalli, davanti alla bottega del maniscalco Vinko, lodavano i cavalli di Memiš: ben pasciuti, fianchi larghi e petto muscoloso.

Ogni volta che li sentivo passare lungo la mia strada, sbucavo dal cortile o mi mettevo a scorrazzare per il frutteto pur di riuscire a scorgerli. Lungo le viuzze che vanno dal fiume verso la strada, al grido di Memiš gist – ej! gist – ej!, trainavano il carro pesante di carico umido, serrando forte il morso con le mascelle. Le loro scure criniere allora vibravano e dalle loro bocche colava la schiuma a fiotti. Sabbia e ghiaia gocciolavano, sulla strada rimanevano tracce bagnate, sprizzavano scintille dal ferro di cavallo che batteva sul selciato, schioccava la frusta, ma sempre in alto al di sopra del cavallo, solo per avvertire che il lavoro va svolto. Altrimenti, come avrebbero potuto specchiarsi i volti degli spalaghiaia negli occhi dei cavalli?

La sabbia e la ghiaia arrivavano così in cantiere.

Senza sabbia né ghiaia – niente fondamenta, niente casa!

Innumerevoli volte stemmo a guardare come lo facevano, Memiš e i suoi figli. Immersi nell’acqua del fiume fino al ginocchio, talvolta anche fino alla cintola, con le vanghe larghe che colavano spruzzi d’acqua, scagliavano con lanci possenti sabbia e ghiaia sul pianale di legno del carro. La sabbia e la ghiaia migliori le estraevano al principio dell’estate, quando il fiume Fojnica, povero di acqua, faceva vedere sul fondo i ricchi depositi arenosi. Quando invece il grosso dei depositi giaceva nel punto più profondo del fiume, bisognava dapprima caricare la barca e soltanto in seguito il carro.

La barca? Si trattava in effetti di una specie di trogolo lungo e basso, assottigliato verso la punta, rivolta all’insù tanto da ricordare la vera prua di una nave.

Spalaghiaia sulla Fojnica, Visoko anni Trenta del XX secolo - Foto di Ing. Milenko Gavrilović

Spalaghiaia sulla Fojnica, Visoko anni Trenta del XX secolo - Foto di Ing. Milenko Gavrilović (1894-1947) - Collezione del Museo di Visoko

D’estate spesso lavoravano fino a notte fonda. Sentivo, coricato a letto e già quasi addormentato, quando facevano rientro al loro paese, al villaggio Buke, per la strada lungo il fiume. Allora mi alzavo, scostavo la tenda e li guardavo passare: il fanale sotto il carro riluceva giocherellando col ritmo del saltellio dell’asse, lungo il tratto selciato del sentiero disuguale.

E dovevo riconoscerli: i cavalli di nessun altro proprietario pestavano lo zoccolo così fortemente. Proprio di nessun altro, soltanto i suoi – i cavalli di Memiš.

Una volta, di primavera, Neno ed io, che frequentavamo già le medie, stavamo giocando in riva al fiume. Memiš e i suoi figli spalavano la ghiaia dall’acqua. Ogni tanto volentieri ci passavano qualche palata di sabbia fine e noi costruivamo montagne, gallerie, strade e case. Avevamo anche un vecchio setaccio con il quale separavamo la sabbia grossa da quella fine.

– Vedo che avete un setaccio... una volta ci disse Memiš. – Non starete mica cercando l’oro?

– L’oro? – Neno ed io fummo sorpresi. – L’oro? Qui, sotto il naso, nel fiume Fojnica?

– Un tempo c’era dell’oro nel Fojnica... Tutto il circondario, alla sorgente del fiume sulla montagna Vranica, al paesino di Fojnica che porta il nome del fiume, e poi verso Kiseljak e Visoko, in tutto il circondario c’erano i raccoglitori d’oro. Avevano certi setacci così, proprio come voi! E setacciavano, setacciavano...

– Ma cosa setacciavano? – incalzammo ansiosi alle parole di Memiš.

– La sabbia! Cos’altro potevano setacciare i raccoglitori d’oro? Il mio babo mi diceva che a Visoko c’era davvero della gente che sciacquava l’oro. A volte, cavolo, ci trovavano anche qualche pepita abbastanza grossa!

Neno ed io ci guardammo sbalorditi. Un miracolo mai visto! Oro! Come nei romanzi di Jack London e Karl May! Con una pepita d’oro forse si sarebbero potute comperare tutte quelle biciclette dell’officina della ferramenta che sta vicino al Sebilj, biciclette dalle ruote sfavillanti, dal manubrio lucente e dal morbido sedile!

Ci precipitammo per la via più corta, correndo a rotta di collo oltre gli orti e giardini, verso la nostra via. Entrammo di corsa nel mio cortile, senza fiato.

Mia nonna Zorka, china su un contenitore di legno pieno di basilico, che noi chiamavamo bosiok, non ci prestò orecchio. Dopo un primo silenzio, si alzò e scuotendo il capo disse:

– Sì, Memiš dice il vero... c’era dell’oro nel fiume Fojnica... lassù, e facendo un gesto con la mano indicò le montagne invisibili in lontananza e continuò:

– Lassù, Dio solo sa quando, la gente setacciava la sabbia per trovare oro. Quelli del circondario di Vranica dicono: Già dai tempi dei Greci! C’erano addirittura miniere d’oro... e l’acqua trascinava quelle pietre sempre a valle, fino alla foce del Fojnica in Bosnia!

Avremmo forse potuto ascoltare una spiegazione migliore?

Quello stesso giorno dovemmo fabbricare un setaccio abbastanza grande, con la rete di un vecchio letto della cantina di Neno. La rete era malandata e lasciata lì ad arrugginire, come se avesse aspettato il tempo delle grandi imprese.

La rete del vecchio letto – tutta la nostra speranza!

– Noi ci butteremo la sabbia sopra e poi quel che sarà, sarà!... Non si sa mai!, ci rincuoravamo a vicenda.

In fin dei conti ci basterebbe una pietruzza, un’unica pietruzza per comperare le biciclette! Nuove, scintillanti, con cui si potrebbe partecipare alle gare su strada per la festa del Primo Maggio!

Tup-lup, kuc-kuc-tras! batteva il martello sui chiodi. Come per gioco, raccordammo al telaio fatto di vecchie assi di legno i bordi del nostro setaccio. Un’unica immagine, come nel sogno, stava davanti ai nostri occhi: stiamo entrando nella rivendita, nella tasca abbiamo i soldi della pepita venduta.

– Prego, ragazzi! ci dice il negoziante Slavo in persona.

– Vogliamo le biciclette… Quelle luccicanti, quelle dalla vetrina! Rispondiamo, all’unisono come se volessimo vincere il dubbio del negoziante, se i soldi li avessimo davvero o no.

– Vogliamo quelle che hanno sopra la scritta d’oro Herkules!

– Dunque, quelle dalla vetrina… ribatte bonario il commerciante Slavo, prende dalla cassa le chiavi della vetrina, la apre e poi …

– Ecco le Herkules per i bravi ragazzi!

– Qual è la prima cosa che collauderai della bicicletta, chiesi a Neno, mentre di corsa, affannati, con le palette alla cintura, portavamo il setaccio verso la Luka – una sponda larga e sabbiosa del fiume, che si estende dietro le ultime case della città.

– Io, il campanello! Rispose fulmineo. – E tu?

– Anch’io!

Setacciammo a lungo la sabbia. Di oro neppure l’ombra. Nemmeno quando scintillò una pietruzza, figurarsi una pepita… Allora decidemmo di spostarci a monte del fiume, verso il paese di Zbilje, laddove il fiume gira e il fondale è ricoperto di lastre di pietra, dette “mensole”. Forse proprio tra di esse poteva esserci nascosta una pepita? Con le nostre palette, dal basso fondale scagliavamo la sabbia dritta nel setaccio. Sbatti di qua, sbatti di là, ma ancora niente oro!

La fronte sudata, i nostri stivali già tutti zuppi d’acqua, perché si doveva guadare il fiume anche nel profondo. Quante volte gridammo di gioia quando sulla rete brillò un pezzo di vetro o qualche pietruzza luccicante!

Niente di niente!

Quel giorno arrivammo a scuola quasi in ritardo. Avevamo il turno pomeridiano. Il setaccio e le palette, nascosti nel saliceto vicino al fiume, ci aspettavano per il giorno dopo.

E l’indomani? – la stessa cosa. Setaccia, risetaccia, e niente... dell’oro neanche una traccia! Ci scambiavamo anche le postazioni, sempre di più.

– Quanti posti avremo cambiato, e ancora niente di niente... disse Neno. – Ma ora io so!

– Che ne sai?

– L’oro fino alla riva non ci viene? Allora è laggiù, è in mezzo al fiume che bisognerà andare a prendere la sabbia!

– In mezzo al fiume!? Ma l’acqua è troppo fredda!

– E le biciclette? E le corse del Primo Maggio?

- Uhm, forse hai ragione, dissi. - Se si deve, si deve! Bisognerà fare così...

L’acqua era fredda, ci pareva più fredda del ghiaccio, gli stivali troppo bassi.

Brrr! Feci scosso dal freddo.

– Niente brrr! Forse non hai visto Memiš e i suoi figli! – Se loro possono farlo durante tutto l’anno, possiamo pure noi! – Mi sgridò Neno.

Tutta la mattina continuammo a scavare la sabbia dal centro del fiume e a scuoterla sul setaccio. Più volte sfidammo la fortuna attraversando fino all’altra sponda, dove stava la chiusa di un mulino abbandonato.

Ma dell’oro nemmeno un granello!

I pantaloni sollevati e le maniche dei maglioni più che zuppi. Sotto le ginocchia, apparivano i lividi blu del freddo.

Ancora balenò il luccichio di qualche pietruzza, un pezzetto di vetro, ma dell’oro niente, neanche un granello!

Quella sera sia Neno che io tremavamo dalla febbre. Mi ricordo le parole di mio padre, preoccupato e pur arrabbiato per la nostra imprudenza:

– Il fiume Fojnica è il figlio della montagna, freddo sia d’estate che d’inverno.

– E Memiš? E i suoi figli? Protestai chiedendo il sostegno di mia madre.

– Loro sono un’altra cosa… Mi disse solo questo.

In sogno, con la febbre, mi sembrava di vedermi in sella a quella bicicletta con la scritta dorata Herkules.

– Sono primo! Ho vinto! Ecco il premio!

In seguito ho saputo dai genitori di Neno che anche lui, in preda al delirio, parlava di pepite d’oro, di biciclette, di corse lungo le strade.

Una volta guariti andammo di nuovo giù al fiume dove Memiš e i suoi figli tutti i giorni scavavano detriti.

Come se lo vedessi ora:

Il carro viene caricato, l’acqua che scola e profuma di fango e di alghe, al sole primaverile nell’arco d’argento. Le teste dei cavalli con le sacchette variopinte si muovono avanti e indietro nel desiderio di catturare più avena possibile.

Il rumore di zoccoli sul basso fondale.

– L’oro non c’è, Memiš! – gli gridiamo noi.

Memiš ridacchia. Sul suo volto esile, scuro di sole, giocano le ombre primaverili dei salici, nella sua bocca luccica un dente d’argento. Avendo allargato le braccia, si appoggia al carro e grida:

– Chi cerca trova, chi non cerca non trova niente...

Parla forse dell’oro?

Brilla l’acqua sotto il sole, e i cavalli tranquilli quasi fossero nati dal fiume, si preparano a trascinare il loro carico.

 

(Traduzione: Patrizia Almesberger)

 


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