Un Motel a Lebanon, Usa (© Peek Creative Collective/Shutterstock)

Lebanon, Usa (© Peek Creative Collective/Shutterstock)

Un romanzo fortemente autobiografico, che narra la nostalgia, nominandola poco. E' nelle librerie Me’med, la bandana rossa e il fiocco di neve, l’ultimo romanzo di Semezdin Mehmedinović

22/10/2020 -  Veronica Tosetti

Me’med, la bandana rossa e il fiocco di neve, l’ultimo romanzo di Semezdin Mehmedinović (tradotto da Elvira Mujčić per Bottega Errante Edizioni ) è costruito per ricalcare la struttura della famiglia nucleare minima, tripartito come una trinità che si ricongiunge in un’unità perfetta. Padre, figlio, madre - in quest’ordine - sono i tre elementi che danno il titolo al libro e che suddividono le singole parti del libro: Me’med, il soprannome monco che i medici americani danno al protagonista durante il ricovero in ospedale; la bandana rossa dei giovani pionieri di Tito, indossata dal figlio Harun durante un viaggio nel deserto, e il fiocco di neve, un abito bianco del passato sbiadito nella memoria della moglie Sanja dopo l’ictus.

Il libro è, in un certo senso, il resoconto di un viaggio, fisico ed esistenziale, in tre tempi. Non c’è scollamento tra realtà e finzione narrativa perché protagonista e autore del libro coincidono. Il racconto si apre con l’infarto di Sem, il narratore-protagonista, che si manifesta come “un dolore sordo e metallico”, così simile a quello descritto da Christopher Hitchens in un articolo che aveva letto su Vanity Fair qualche giorno prima. A cinquant’anni, dopo il rientro dall’ospedale, la vita di Me’med cambia e la casa non sembra più lo stesso posto di prima a cui poter ritornare. Analogamente accade alla moglie, circa 6 anni dopo, quando un ictus le ruba anche gran parte della loro memoria insieme.

L’unico viaggio reale del libro, a indicare uno spostamento dal punto A a quello B, è quello che Sem-Me’med compie insieme al figlio Harun, di professione fotografo, attraverso il Death Valley Park, tra l’Arizona e il Nevada, per scattare il cielo notturno . Un road trip tipicamente americano, lungo i motel che costeggiano le strade statali, che ricorda quelli di tanti altri racconti, film e romanzi della cultura a stelle e strisce. Ce n’è uno in particolare che le immagini presentate suggeriscono: il ritorno a casa di Dale Cooper, l’agente dell’FBI protagonista della serie Twin Peaks nella terza stagione, uscita nel 2017. Le lunghe traversate in macchina per i panorami desertici, i diner e le atmosfere notturne richiamano vividamente alcune immagini trasposte da David Lynch per raccontare la lunga epopea del ritorno, come un moderno Ulisse, verso l’inquietante cittadina americana da cui era stato sottratto, attraversando portali temporali e dimensioni diverse. Quello di Sem e Harun è viaggio che collega due mondi, quello originario bosniaco e quello americano, però vissuto solo ed esclusivamente da turista.

La nostalgia, etimologicamente il dolore della lontananza e quindi il desiderio inconsolabile del ritorno, permea tutto il romanzo, pur venendo nominata poche volte: è una sensazione pervasiva che accompagna il lettore con una chiarezza devastante, senza mai essere esplicita, dalla prima all’ultima pagina. I ritorni a casa anelati da Mehmedinović nei tre tempi del romanzo, suggeriscono suggeriscono il ritorno alla madrepatria, abbandonata da profughi durante la guerra e in particolare dopo l’assedio di Sarajevo, dove abitava la famiglia. A rinforzare questa convinzione, un passaggio inequivocabile del libro, dove il protagonista-narratore spiega a una scrittrice americana il voto di non scrivere mai in inglese, ma sempre nella lingua natia, provocando perciò una tristissima reazione della donna. Cosa rappresenta dunque uno scrittore che si rifiuta di scrivere nella lingua del paese che lo ha accolto e gli ha dato una promessa di nuova vita?

Questa opera di Mehmedinović rientra a pieno titolo nel novero della letteratura della diaspora jugoslava e in particolare si accompagna ad altri due famosi titoli tradotti in italiano: Il libro delle mie vite di Aleksandar Hemon (Einaudi) e Manuale d’esilio di Velibor Čolić (Bompiani). Ad accomunarli non è solo il tema dello sradicamento dalla patria e del conseguente, doloroso ricollocamento nella nuova nazione, ma anche lo stile frammentario, costruito per stralci lirici. Tutti e tre i libri, che fingono di raccontare le vite di omonimi personaggi letterari per finire a raccontare il vissuto degli autori, hanno una struttura per episodi brevi e fulminei. Il giovane poeta Čolić arriva in Francia e conduce una vita solitaria alla ricerca di un senso e di una soluzione alla solitudine, così come Hemon arriva a Chicago per trovare la sua nuova identità post-jugoslava: sono entrambi scrittori che cercano la propria voce nella nuova lingua, la quale permetterà loro di vivere del proprio talento. Esattamente l’opposto di quello che succede con Mehmedinović, che si mantiene aggrappato alla propria lingua di origine, il bosniaco.

Hemon aveva elogiato l’uscita di Sarajevo Blues, il romanzo dell’amico Mehmedinović (purtroppo ancora inedito in Italia), in quanto non solo documento fedele per capire l’orrore della guerra nella capitale bosniaca, ma anche per la caratura letteraria del testo. Scrisse nel 2006 su Poetry Foundation: “L’obiettivo della nostra realtà è di nascondere l’esistenza della morte, e una cosa che gli scrittori e i poeti possono (e dovrebbero fare) è disfare la bugia della realtà, a partire dalla bugia della vita eterna nel presente. Ciò che Mehmedinović ha fatto in Sarajevo Blues, con l’anima e la mente di un poeta superbo, è stato di riconoscere che il collasso della realtà a Sarajevo è direttamente legata all’ubiquità della morte.” Un commento che permette di illuminare la verità anche di quest’ultimo libro, andando a identificare la poetica di questo autore e il suo legame con il tema della morte. In un passaggio fulmineo, con la potenza del linguaggio lirico, l’autore fa dire alla moglie: “Attacco ischemico, attacco di cuore, entrambi abbiamo avuto un attacco - Harun è figlio di genitori attaccati”. Tutto il libro sembra descrivere gli effetti a lungo termine di una sindrome da stress post-traumatico.

L’America nel libro è rappresentata come sempre più ostile agli stranieri, rendendoli ostili a loro volta tra loro (stanno peggio i “russi” o i neri? Nel dubbio, meglio prendere le distanze e odiarsi a vicenda), e l'autore teme la minaccia di Trump alle elezioni del 2016. Non stupisce che Mehmedinović ora abbia abbandonato gli Stati Uniti per tornare a vivere a Sarajevo.


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