Maria Louka contatta la sua famiglia su Skype - E.Krithari

Anna, Maria, e molte altre. In Grecia, migliaia di donne immigrate lavorano come collaboratrici domestiche e badanti. Una vita difficile, sospesa tra legalità e settore grigio, paese di origine e di arrivo, orgoglio e rimpianti

18/03/2019 -  Elvira Krithari Atene

Invisibile com'era (ed è ancora), era impossibile per lei andare in banca per mandare i soldi alla famiglia in Bulgaria. Anna Georgieva – non è il suo nome, ma suo figlio (che chiameremo Ivan) non voleva che fosse usato per l'articolo – andava quindi in centro ad Atene una volta al mese, ad Ayiou Konstantinou numero 36, Omonia, per inviare denaro in Bulgaria: con l'autobus.

Il momento in cui consegnava all'autista una busta con il nome di sua madre (tra molte buste simili di altre donne) simboleggiava una piccola vittoria, un obiettivo raggiunto.

Anna Georgieva può ricordare almeno 168 di questi momenti (in 14 anni) di riuscite transazioni, necessarie per far sì che Ivan, il suo unico figlio a Sofia, potesse diventare l'avvocato promettente che è oggi. Meno sono stati però i momenti in cui ha potuto effettivamente vederlo diventare tale.

Il confine indefinito tra pubblico e privato

Mentre la maggior parte delle donne migranti in Grecia è impiegata nelle famiglie (il 57,2% secondo un sondaggio del 2011)1, quelle provenienti dai paesi geograficamente e culturalmente vicini di Balcani ed Europa orientale non rappresentano un gruppo compatto e omogeneo.

Quando Polonia, Bulgaria e Romania sono entrate nell'UE, per le lavoratrici domestiche si è creata l'opportunità di vivere e lavorare in Grecia. Tuttavia, rimangono molti casi come quello di Anna: impiegata da due medici in pensione che non pagano l'assicurazione obbligatoria, rimane ancorata al tradizionale contesto di lavoro nero.

Anna si gode il caffè nella casa in cui lavora - E.Krithari

L'assenza di un senso di comunità fra le migranti dai Balcani e dai paesi dell'Europa orientale non è causata solo dalle differenze nel diritto alla mobilità legate allo status UE, ma anche dai loro diversi background e bisogni: ad esempio, le lavoratrici domestiche albanesi arrivano generalmente in Grecia con le loro famiglie per stabilirsi definitivamente, mentre le migranti ucraine, secondo gli studi, sono in genere vedove o divorziate.

Le differenze sono, ovviamente, solo un lato della medaglia. L'altro è che queste donne non hanno nemmeno la possibilità di incontrarsi.

Sebbene Anna non si trovi nella situazione di prendersi cura di una persona anziana inferma e non poter lasciare la casa, lavora da anni senza nemmeno un giorno di riposo. Maria Louka dall'Ucraina, invece, si prende cura di una donna anziana, inferma e completamente dipendente da lei, in una casa molto vicina a dove lavora Anna. Le due donne non si sono mai incontrate.

La mancanza di giorni di riposo non solo viola le leggi sul lavoro, ma è anche causa dello stato psicologico di costante sovraccarico delle lavoratrici domestiche. Durante la nostra conversazione, Maria inizia molto spesso a piangere. È anche la ragione per cui queste donne migranti non sono in grado di sindacalizzarsi e negoziare condizioni di lavoro legali.

"È molto difficile per loro organizzarsi quando non hanno un giorno libero, o possono uscire solo la domenica. Hanno paura delle persone, non conoscono bene la società, raramente partecipano a discussioni aperte. Queste donne non sanno leggere e scrivere in greco, hanno poca autostima e non vogliono andare da sole negli uffici pubblici a registrarsi. Quindi anche le donne greche che lavorano nel settore devono iscriversi al sindacato, collaborare, esigere la certificazione della loro professione", spiega la parlamentare europea Kostadinka Kuneva. Kuneva, che lavorava come addetta alle pulizie in Grecia, è stata segretaria del sindacato greco addetti alle pulizie e governanti. Nel 2008, a causa delle sue attività sindacali, è stata violentemente attaccata con acido solforico (vetriolo), riportando danni permanenti alla vista e alle corde vocali.

Bloccate nelle case delle città o delle province isolate della Grecia, con l'obiettivo di spendere il meno possibile del salario che guadagnano per poter mandare il resto a casa, queste migranti hanno il duplice ruolo di lavoratrici e capifamiglia. Eppure, non possono svolgere appieno nessuno dei due: lavorano in condizioni illegali, non hanno la libertà di negoziare e sono fondamentalmente sole: per loro, le loro famiglie esistono su Skype.

Anna: "Ci vogliamo bene, ma non penso che ci riabitueremo l'uno all'altra"

"Alla fine ho trovato una soluzione per lo scaldabagno; quando lei dormiva, lo accendevo di nascosto. Ma una notte ho dimenticato di spegnerlo. Quando l'ha visto, al mattino, si è scatenato l'inferno". Anna, 49 anni, parla di datori di lavoro difficili, pretese assurde o addirittura offensive che vanno contro i più elementari diritti umani, dagli appartamenti luridi ad attacchi personali sulla (non) importanza della storia del suo paese.

"Lavoro qui da 14 anni, e non ho un solo timbro [per la previdenza sociale/assicurazione]. Quando lavoravo a Kypseli, quando ancora non eravamo nell'Unione europea, [il governo] ha avviato un processo per i documenti. Ma se eri una collaboratrice domestica il datore di lavoro doveva darti un documento per certificare che vivevi al suo indirizzo.

Quando chiedevi i documenti nessuno voleva darti niente e ovviamente nessuno voleva pagare l'IKA [sicurezza sociale/assicurazione]. Quindi ho fatto senza. All'inizio era terribile. Prima che entrassimo nell'UE, la polizia ci dava la caccia. Salivano sugli autobus, i tram e i treni di Omonia, dove fermavano i furgoni che usiamo per trasportare cose e trasferire denaro. E ora che siamo nell'UE, ancora non posso inviare denaro dalla banca perché non ho un permesso di lavoro. Devi avere un numero AMKA [sicurezza sociale], un AFM [codice fiscale]. Per ottenere un numero AMKA devi avere un indirizzo, o il datore di lavoro ti deve dare un documento, non ricordo nemmeno più quale, ho smesso di chiedere".

Il massimo che Anna ha mai guadagnato in Grecia è stato 750 Euro al mese. "A settembre mi servivano molti soldi per comprare libri, scarpe e vestiti a mio figlio. E poi quando ha iniziato l'università, di nuovo avevo bisogno di un sacco di soldi: doveva affittare un appartamento a Sofia. Ad ogni modo non tenevo nulla per me, mandavo tutto a casa", racconta.

L'eurodeputata Kuneva, in passato lei stessa migrante e addetta alle pulizie, sa che questo non è un lavoro che ti permette di risparmiare: "Queste donne mandano i loro soldi a casa e non tengono nulla per sè, né per l'assicurazione sanitaria né per la pensione. Quelle che sono riuscite a comprare un appartamento da qualche parte sono pochissime, non è il tipo di lavoro in cui guadagni abbastanza da stare tranquilla, da sapere che avrai una vita più facile. La situazione ricorda i tempi difficili, quando navi piene di giovani lasciavano la Grecia per tornare solo dopo molti anni".

Ivan, grazie agli sforzi di sua madre e alla propria diligenza, è diventato uno dei migliori studenti della facoltà di giurisprudenza. Recentemente è entrato nel mercato del lavoro del suo paese e guadagna già uno stipendio più alto di quello di Anna. Lei mi dice, con grande gioia, che ora deve lavorare solo per mantenere se stessa. Dopo aver guadagnato alcuni contributi di sicurezza sociale da un precedente lavoro in fabbrica, può ora ottenere una pensione minima dal suo paese (circa 80 Euro al mese). Se i medici greci in pensione per cui lavora decideranno di fare a meno di lei, tornerà al suo villaggio. Tuttavia, la realtà che ha sperimentato in Grecia non si concilia più con la sua vecchia vita in Bulgaria.

Una foto delle nipoti di Maria nella sua stanza ad Atene

"Ora sono un'estranea. Perché non torno da anni, non conosco più i miei vecchi amici, non riconosco i loro figli... Altri sono morti. Ho un'amica, la conosco da quando siamo bambine, ma quando la vado a trovare lei parla di che cosa ha cucinato e così via. Questo non mi interessa. Per la stessa ragione non riesco a parlare con mia sorella. Lei pensa solo a che cosa cucinerà quel giorno, questo mi annoia. Ok, forse sono io da biasimare, perché sono cambiata, me ne rendo conto. Non sono come ero prima. Sono diventata scorbutica".

Il periodo più lungo senza tornare in Bulgaria è stato per Anna tra il 2005 e il 2007. Quando è scesa dall'autobus e ha visto Ivan, 15 anni, "mi è caduta in testa una tonnellata di mattoni", dice in modo caratteristico. "Non avevo mai provato quella sensazione prima, Ivan era cambiato molto e ho pensato ecco, non riconosco più mio figlio. Sensazione strana. Ricordo all'inizio quando me n'ero andata, quanto aveva pianto. 'Mamma non andare via, non lasciarmi, non lasciarmi, non voglio soldi!'. Ora le cose sono cambiate. Ci siamo allontanati dai nostri figli. Sono riusciti a vivere da soli. Penso solo agli anni in cui era piccolo e aveva bisogno di me e io non ero lì. Ci vogliamo bene, ma non credo che ci riabitueremo l'una all'altro".

"Lo rimpiangi?", chiedo.

"No. Senza la Grecia, Ivan non sarebbe quello che è oggi"

E lui lo rimpiange? "Bah, avrebbe avuto un computer? Sarebbe stato in grado di vivere così bene da solo, come adesso? Probabilmente vivrebbe ancora nel dormitorio universitario e avrebbe già avuto tre figli...".

Maria: "Mi piaceva molto lì. Era come essere a casa. Mi hanno chiesto come festeggiamo il Natale in Ucraina"

"Sono venuta da turista, avevo un visto di due mesi. Sono venuta con l'autobus da Leopoli. Ci sono volute 36 ore. Dovevo incontrare un'amica. Non avevo un telefono. Ho chiesto all'autista di chiamarla. È riuscita ad incontrarmi la sera. Erano passati nove anni dalla morte di mio marito. Ho avuto i miei figli a 12 anni di distanza. Il maggiore era sposato, il minore aveva terminato la scuola superiore e frequentava l'università per diventare insegnante di ginnastica. Non avevo soldi. Dovevo pagare".

Maria è arrivata in Grecia l'11 novembre 2002. Aveva 51 anni ed era già nonna. Aveva lavorato per 34 anni in un ospedale come cuoca, 17 come capo cuoca. Ma ad un certo punto i soldi non bastavano e lei era l'unica che potesse andarsene.

All'inizio ha lavorato a Kesariani, prendendosi cura di una signora anziana, ma non capiva bene il greco. "Ma la signora aveva vissuto in America per 40 anni. Mi disse che quando era andata per la prima volta in America nemmeno lei conosceva la lingua. Chiedeva e pian piano imparava. E così ho preso un taccuino. Ho cominciato a chiedere. Chiedevo il nome di tutto quello che vedevo. La sera mi mettevo a studiare. È ancora difficile".

Nei suoi 16 anni di vita in Grecia, Maria non ha solo imparato la lingua. La nipote di una donna di cui Maria si è occupata per 7 anni dice che, a parte la sua stessa famiglia, Maria è l'unica persona al mondo che si ricorda sempre del suo compleanno e dei compleanni di tutta la famiglia.

Sebbene abbia vissuto lontana dalla sua famiglia per molti anni, Maria ha vissuto con altre famiglie che ha aiutato e, inevitabilmente, a cui si è a volte affezionata.

"Mi piaceva molto lì. Era come essere a casa. Mi hanno chiesto come festeggiamo il Natale in Ucraina". I suoi occhi sono pieni di lacrime mentre descrive quanto sia importante per le persone mostrare semplicemente un interesse.

Come la maggior parte delle donne che si prendono cura degli anziani in Grecia, Maria è rimasta con ciascuno di loro fino alla fine. "Li aiutavo ad alzarsi, facevo loro il bagno. Nessuno mi ha mai aiutata. Poi facevo il bucato e stiravo". Fra le faccende domestiche, ogni tanto sentiva i suoi genitori.

"Prima che partissi erano ancora tutti vivi, li chiamavo sempre, sapevo sempre che cosa stavano facendo. Ma non potevo andare lì. Beh, sarei potuta andare, ma poi non sarei potuta tornare in Grecia. Il periodo più lungo in cui sono stata via sono stati tre anni e otto mesi. E un giorno di quel periodo, era il 23 luglio... alle sette di sera, ho portato la signora a fare una passeggiata e ho chiamato a casa dal mio cellulare.

"Tua madre è appena morta", mi hanno detto.

"Che cosa hai fatto?", chiedo.

"Che cosa potevo fare?... Ho pianto. E un altro giorno sono andata in chiesa"

 

Come Anna, Maria ha visto i suoi figli diventare indipendenti e ora dice che lavorerà solo per se stessa. Le chiedo cosa farebbe se potesse tornare indietro nel tempo e lei dice, categoricamente, che non lascerebbe mai il suo paese. "Il tempo si è congelato. 16 anni. Hanno imparato a stare da soli. I nipoti sono cresciuti senza di me. Mi manca tutto".

Anna Georgieva e Maria Louka sono in molti casi il lato invisibile delle famiglie greche contemporanee.

La famiglia internazionale: un processo più che una struttura stabile

Nel suo studio sulle lavoratrici domestiche dei Balcani e dell'Europa orientale, la ricercatrice Katerina Vasilikou nota che per le donne migranti "la famiglia diventa qualcosa per cui lottare, uno sforzo costante, più un processo che una struttura stabile".

La famiglia internazionale – una famiglia in cui i legami non cessano di esistere solo perché i suoi membri sono separati da grandi distanze – dipende in larga misura dal costante mantenimento della comunicazione.

Per la maggior parte del tempo passato in Grecia, Anna e Maria non hanno avuto accesso alle tecnologie avanzate per comunicare con le loro famiglie. La domenica chiamavano le loro famiglie da telefoni a pagamento: Maria ricorda che 20 minuti le costavano 3 Euro, il prezzo della scheda telefonica. Anna ha comprato un portatile dalla Bulgaria. Dopo aver provato per 3 anni a connettersi al wifi del vicino dal suo cellulare, Maria ha recentemente preso un tablet e nella casa in cui lavora c'è Internet. Ora, almeno, entrambe le donne sono meno sorprese della velocità con cui le loro famiglie stanno crescendo e cambiando.

Sembra che le donne siano la ragione principale per cui le famiglie internazionali rimangono unite, anche se sono loro che se ne vanno. Kostadinka Kuneva offre una spiegazione: "Come la vita ha dimostrato e come ha visto la maggior parte delle persone negli ultimi 30 anni, le donne sono più adattabili e flessibili e più pronte a decidere di partire e trovare lavoro altrove per mantenere la loro famiglia. Ho questa idea, che come donne impariamo ad offrire il nostro corpo e lavoro ed energie agli altri, e così, penso, lavoriamo sul nostro egoismo. Questo si trasforma in amore, poi in devozione, e quindi una madre sente fortemente la responsabilità di mantenere la famiglia se gli altri membri non sono in grado di farlo per un motivo o per l'altro. Una donna non può stare a guardare quando vede che suo figlio non ha nulla da mangiare. Ricordo che mia zia stava molto male quando suo figlio chiedeva un biscotto, non uno al cioccolato, ma solo un biscotto, che costa pochissimo: poche monete, ma lei non aveva nemmeno quelle. Che cosa doveva fare per il cibo, come poteva permettersi di mandare suo figlio a scuola? Così lei ha dovuto andarsene. Diceva sempre: "Sono andata via per un biscotto".

La regolamentazione del lavoro domestico, per non parlare di un quadro di certificazione, cambierebbe non solo la vita delle donne che spesso vivono come prigioniere, ma andrebbe anche a beneficio dei loro datori di lavoro, le famiglie che affidano i propri cari a persone di cui sanno molto poco.

In una certa misura, questo influenzerebbe positivamente anche la vita dei figli delle migranti, perché "una cosa è dover partire improvvisamente per un lavoro che è come una prigione, sopportare la mancanza di rispetto, la tua famiglia non sa nemmeno se sei viva, come stai, ti prendono i documenti e non li restituiscono... ed è un'altra cosa se loro sanno che sei andata in un centro di ricerca, in un'università o in un'azienda e hai un indirizzo e un telefono e puoi sempre essere in contatto con loro", aggiunge Kuneva.

Per il resto, è difficile offrire risposte. Come compensare la perdita di un genitore che non è morto, e come gestire il senso di colpa che probabilmente provi perché la separazione è a causa tua, o a tuo vantaggio? La risposta può arrivare solo dalla generazione globale che è cresciuta senza le loro madri.

 

Women΄s Immigration in Greece (2011) con la collaborazione del Centro nazionale di ricerca sociale, Università di Panteion e Centro per la ricerca sulle questioni femminili nel quadro del Fondo europeo per l'integrazione dei cittadini di paesi terzi (EIF)

 


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