Lavori di ammodernamento della linea ferroviaria Belgrado-Budapest - © Fotosr52/Shutterstock

Lavori di ammodernamento della linea ferroviaria Belgrado-Budapest - © Fotosr52/Shutterstock

Era nata nel 2012, per favorire la cooperazione economica tra Cina ed Europa centro-orientale. Dopo l'ultima edizione, tenuta online e approdata a risultati deludenti, l’iniziativa “17+1” sembra sempre più in declino, tanto che alcuni analisti ne mettono apertamente in discussione la sopravvivenza

05/03/2021 -  Francesco Martino

L'ultima edizione della piattaforma “17+1”, nata nel 2012 per espandere la cooperazione economica tra la Repubblica popolare cinese e un nutrito gruppo di paesi dell'Europa centro-orientale, sembra essere nata sotto una cattiva stella.

Messo inizialmente in agenda a Pechino per la prima metà del 2020, l'incontro è stato poi rimandato a data da destinarsi a causa della pandemia globale di Covid-19. Dopo aver accumulato mesi di ritardo, l'evento è stato alla fine trasformato in un evento online, tenuto lo scorso 9 febbraio.

Nonostante le circostanze avverse, la Cina non ha rinunciato ad investire, politicamente e simbolicamente, nella piattaforma, tanto che per la prima volta a presiedere i lavori, al posto del premier Li Keqiang, è stato lo stesso presidente Xi Jinping.

Da parte dei partner dell'Europa centro-orientale, però, la risposta è stata di tono diverso: ben sei paesi – i tre baltici Lituania, Lettonia ed Estonia, più Slovenia, Romania e Bulgaria – hanno visibilmente ridotto il peso delle proprie delegazioni, “inviando” all'edizione di quest'anno rappresentanti a livello ministeriale, al posto di primi ministri o capi di stato.

Alla fine dei lavori, per la prima volta nella storia della piattaforma, i documenti conclusivi non hanno fatto menzione della prossima edizione : non si sa al momento se, dove e quando si terrà il prossimo incontro del “17+1”. Una mossa forse dettata dalle incertezze legate alla perdurante pandemia, ma che molti analisti hanno interpretato come un segnale di allarme per la sopravvivenza stessa del formato, almeno nella sua forma attuale.

Alla sua nascita nel 2012 il “16+1” (poi diventato “17+1 con la successiva inclusione della Grecia) era stato accompagnato da forti speranze ed aspettative, soprattutto in Europa centro-orientale. La Cina, nuova potenza dalle ambizioni globali, si presentava come protagonista in grado di finanziare a condizioni favorevoli il tanto atteso e necessario ammodernamento delle economie dell'area.

Con la formula del “17+1”, strettamente legata alla strategia globale della Belt and Road Initiative , Pechino prometteva di rendere possibili nuove e vitali infrastrutture che faticavano a trovare finanziamento in Occidente - strade, ferrovie, centrali elettriche - e di rimettere in piedi settori economici divenuti marginali ed obsoleti.

Parte di quelle promesse negli anni si è trasformata in realtà: l'esempio più significativo è senz'altro l'acquisizione del porto del Pireo, in Grecia, divenuto hub della logistica cinese in Europa, ma anche investimenti nel settore energetico (come l'ammodernamento della centrale di Kostolac, in Serbia) o in quello stradale (l'autostrada Bar-Boljare in Montenegro).

Molti progetti, però, sono rimasti solo sulla carta, oppure hanno incontrato complicazioni e pesanti ritardi, anche a causa della difficoltà degli investitori cinesi di adeguarsi ai regolamenti UE. Imponenti investimenti nel settore energetico in Romania, ad esempio, che riguardavano anche la centrale nucleare di Cernavoda sono saltati, mentre l'ammodernamento della linea ferroviaria Belgrado-Budapest, altro progetto chiave, procede a rilento nonostante Serbia e Ungheria siano nell'area tra i paesi più vicini a Pechino.

Tra l’altro in questi decenni, il focus degli investimenti cinesi in Europa è rimasto puntato sui paesi ricchi dell’Unione: dei 126 miliardi di investimenti fatti da Pechino nel Vecchio continente nel periodo 2000-2019, solo 10 miliardi si sono diretti nell’area coperta dal “17+1” .

Lo scambio commerciale tra Cina e i 17 è cresciuto, ma non ai ritmi travolgenti che venivano prospettati: l'obiettivo di un interscambio da 100 miliardi di dollari, raggiunto a inizio 2021, nei piani doveva divenire realtà già nel 2015 . Uno scambio tra l'altro fortemente squilibrato a favore della Cina.

Quest’ultimo è un problema implicitamente ammesso dallo stesso Xi Jimping, che nell'ultima edizione del “17+1” ha offerto di raddoppiare nei prossimi cinque anni le importazioni cinesi di prodotti alimentari dall'Europa centro-orientale, import che al momento incontra difficoltà burocratiche e dazi doganali.

All’incontro on-line dello scorso 9 febbraio , insieme alla prospettiva di nuovi mercati per i prodotti della regione, Pechino ha poi messo sul tavolo l'accesso facilitato ai vaccini anti-Covid sviluppati dall'industria farmaceutica cinese, una vera e propria “diplomazia dei vaccini”  che appare particolarmente allettante in l'Europa centro-orientale, area in forte difficoltà nel reperire le dosi necessarie a contenere la pandemia, anche per la debole risposta fornita finora dall’UE alle richieste di aiuto provenienti dalla regione.   

Nonostante le promesse, però, a buona parte dell'area è ormai evidente che, almeno per ora, la Cina non ha la volontà (e forse la capacità) di sostituire l'UE come principale motore dell'ammodernamento dei propri sistemi economici. Altri fattori, però, oltre alla disillusione, contribuiscono ad indebolire le fondamenta del “17+1”.

Uno di questi è la crescente contrapposizione globale tra Stati Uniti e Cina, destinata con tutta probabilità a rafforzarsi sotto la presidenza Biden. Molti stati dell'Europa centro-orientale sentono la questione sicurezza – soprattutto nei confronti della presenza russa – come priorità assoluta, superiore anche allo sviluppo economico.

In una situazione di scontro permanente, paesi che dipendono dallo scudo Nato tendono quindi naturalmente a schierarsi nel campo americano. Un atteggiamento che è stato recentemente evidenziato dall'adesione di larga parte dei membri europei del “17+1” alla “Clean Network Initiative”, azione globale sponsorizzata da Washington per contenere l'espansione dell'accesso alla tecnologia 5G di Huawei e di altre grandi compagnie cinesi.

Anche l'UE ha contribuito a raffreddare gli entusiasmi. L'Unione ha sempre visto il “17+1” con un certo sospetto (12 dei 17 paesi coinvolti nell'iniziativa sono paesi membri dell'Unione), considerandolo soprattutto un esercizio di soft-power cinese volto a sfruttare le difficoltà di Bruxelles nell'area per portare dalla sua parte le economie più fragili del continente ed esercitare una politica di “divide et impera” all'interno del blocco europeo.

Visti i magri risultati dell'ultima edizione, alcuni analisti si sono spinti a decretare un probabile tramonto del “17+1”, anche visti la recente firma del “Comprehensive Agreement on Investment (CAI)” tra UE e Cina, che renderebbe obsoleto il forum, e le voci di una probabile uscita di alcuni dei paesi coinvolti, Lituania e paesi baltici in primis.

Per altri, invece, l'esperienza maturata dai paesi dell'area all'interno dell'iniziativa nell'interagire con la crescente potenza cinese, pur con i suoi limiti, non è tutta da buttare, e potrebbe portare frutti significativi nel futuro, a prescindere dalla sopravvivenza del “17+1” , nella sua forma attuale o con una formula più leggera, con incontri che – si commenta ormai apertamente - potrebbero passare da quella annuale tenuta finora ad una cadenza più diluita nel tempo.


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