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L'analisi: 11 settembre e Balcani

17/09/2001 -  Anonymous User

Stefano Bianchini, profondo conoscitore della realtà balcanica, commenta gli attentati terroristici ed i loro possibili effetti nei Balcani.


E' online la nostra guida tematica sulle minoranze nei Balcani

14/09/2001 -  Anonymous User

Lo studio, curato da Slavica Dimitrievska e Steve Degenève dell'Accademia Europea di Bolzano inizia con una breve introduzione in cui si sofferma sui concetti di minoranza e di autonomia, nonché sulla tutela che le norme internazionali garantiscono ai diritti delle minoranze. In seguito i ricercatori prendono in considerazione ciascun paese dell'area, monitorando per ognuno i temi della partecipazione alla vita pubblica, della lingua, dell'istruzione e dei media. Il testo è in inglese ed è stato realizzato nell'ambito di MIRIS, il Minority Rights Information System dell'Accademia Europea di Bolzano.


Ex-Jugoslavia. Dopo 10 anni una pace ancora da costruire

01/09/2001 -  Anonymous User

27 GIUGNO 1991. PRIMI SCONTRI LUNGOIL CONFINE TRA TRIESTE E GORIZIA TRA LA DIFESA TERRITORIALE SLOVENA E L'ARMATA JUGOSLAVA, SCONTRI CHE PROSEGUIRANNO PER POCO PIÙ DI DUE SETTIMANE PROVOCANDO54 MORTI. È IL PRELUDIO, PIÙ O MENO ARTEFATTO, DELLA DISGREGAZIONE DELLA JUGOSLAVIA, LA SCINTILLA CHE FA DIVAMPARE UN INCENDIO LUNGO DIECI ANNI.
Sei diverse guerre combattute (tra Slovenia e Federazione Jugoslava, tra Croaziae serbi delle Krajine, tra serbi e croato-musulmani e tra croati e musulmani di Bosnia Erzegovina, tra Serbia e albanesi kosovari e infine l'intervento della Nato del 1999),almeno 300.000 morti, 2.700.000 tra profughi e sfollati a causa di una pulizia etnica spaventosa, l'assedio di Sarajevo durato oltre 1.000 giorni: questi i tristi dati "contabili"del bilancio decennale di una guerra che ha sconvolto il cuore dell'Europa. Accolto da molti come una improvvisa escrescenza violenta della crisi del dopo '89, sottovalutatocome una parentesi dai responsabili di governo, utilizzato inizialmente per provare
ad estendere l'area di influenza economica o politica, il conflitto in Jugoslavia hasconvolto il ruolo degli organismi internazionali, ha riportato la guerra generalizzata, la pulizia etnica, i campi di concentramento sul suolo europeo, ha permesso alla NATOdi affermare il proprio ruolo in un'area fino a qualche tempo prima "off limits". A dieci anni dall'inizio delle guerre jugoslave, i Balcani sono ancora sospesi tra emergenza e ricostruzione, conflitti e pacificazione. Una vera pace, ancora non c'è,nonostante la scatola mezza vuota del Patto di Stabilità, che ha esaurito rapidamente
la sua piccola "spinta propulsiva" e anche i tanti soldi (in gran parte, solo promessi).E ancora grandi le incognite, nonostante l'uscita di scena dei "signori della guerra" e delle leadership più nazionaliste. Altrettanto critico il bilancio "politico": inadeguatezza e fallimento dell'Europadi fronte allo scoppio del conflitto, crisi e umiliazione delle Nazioni Unite sacrificate sull'altare della realpolitik occidentale ("L'ONU è morta a Sarajevo", recita il titolo diun libro di G. Riva e Z. Dizdarevic), violazione del diritto internazionale con l'intervento della Nato e diffusa impotenza di fronte alle tante violazioni dei diritti umani. E così,due anni fa, per 78 giorni, bombardieri occidentali da 7-8.000 metri in nome di una falsa "ingerenza umanitaria" hanno ribadito l'idea di un ordine internazionale fondatosulle armi, provocando una guerra mai decisa da nessun organismo democratico,
né dall'ONU, né da nessun parlamento nazionale, ma solamente dal "club esclusivo"delle grandi potenze. I Balcani hanno dunque rappresentato un laboratorio per sperimentare nuovi assetti di potere (economici e militari) nelle relazioni internazionali dopo la vittoria occidentale nella guerra fredda. Il conflitto mette così in luce contraddizioni, nodi politici e culturali non sciolti.Questi sono: il nazionalismo come reazione ai processi di modernizzazione, il difficile rapporto tra i principi della cittadinanza e la pratica della convivenza multietnica(interrogando anche validità, limiti e regole del principio di autodeterminazione), la ridefinizione del ruolo degli stati messo in crisi dalla globalizzazione, le forme e gli strumenti dell'intervento delle Nazioni Unite di fronte alle violazioni dei diritti umani. Edinfine la questione di un'Europa ancora dimezzata dal perdurare di nuove mura, come recentemente denunciato dal sindaco di Sarajevo.

LO SPECCHIO, DI LÀ DEL MARE

Un'Europa che in questi anni ha sostanzialmente rimosso la tragedia che si andavaconsumando di là dell'Adriatico. Una rimozione che non riguardava solo le cancellerie, una rimozione collettiva che non corrispondeva semplicemente al chiudere gli occhidi fronte a quanto stava avvenendo a poche decine di chilometri dal nostro quotidiano, e che affondava le proprie radici nei luoghi comuni e nel vuoto di conoscenza del contestobalcanico, come se lì qualcosa di ineluttabile stesse accadendo, quasi ad alleggerire il peso sulle coscienze. "È sempre andata così ..." In realtà quanto stava avvenendo nel sud est europeo corrispondeva all'avvio diun nuovo tipo di conflitto, un conflitto che pure utilizzando gli arcaici richiami ai fondi genetici dei popoli, rappresentava in realtà le forme post moderne della riorganizzazionedegli assetti geopolitici ed economici del dopo '89. Basti pensare alle strette relazioni fra il nord est italiano e le dinamiche assunte dalla transizione economica nei paesi post comunisti. Se dieci anni fa la città di Timisoaradiede il la, nell'artefatta manipolazione di una rivoluzione decisa nel palazzo come ci hanno spiegato le mirabili pagine di Paolo Rumiz in "Maschere per un massacro", alla cadutadel regime di Ceaucescu, oggi questa stessa città ospita le riunioni degli industriali del miracolo economico italiano. C'è dunque qualcosa di terribilmente moderno nelle vicendeche hanno segnato i Balcani degli anni '90, che ha a che vedere con le dinamiche della globalizzazione e la crisi degli stati nazione, dell'accumulazione finanziaria, del controllodei corridoi strategici fra l'Europa, il Caucaso e l'Oriente, della sperimentazione dei
più sofisticati sistemi d'arma, nell'intreccio fra deregolazione e neoliberismo. E dunque di terribilmente cinico. Ecco perché i Balcani sono lo specchio dell'Europa,dell'Italia, di ciascuno di noi. A pensarci bene si tratta di una rimozione che affonda le proprie radici nella storia, nell'inquietudine di un intreccio di culture e di religioniche proprio lì si sono incontrate e spesso scontrate, nel classico rincorrersi di vincoli ed opportunità. Così la parola balcanizzazione è diventata nell'immaginario collettivo (ma anche nei dizionari) sinonimo di caos e di instabilità. In realtà del nostro vicino di casanon sappiamo nulla, non la storia, non la letteratura, non la lingua. E nel tempo della semplificazione questa complessità era meglio fosse cancellata, rimossa appunto.

MACERIE E UNA PACE CHE NON C'È

La ferita dei Balcani non è guarita, nonostante le iniezioni di aiuti internazionali,un protettorato che riguarda direttamente la Bosnia e il Kosovo e una "protezione" militare che interessa anche la Macedonia e l'Albania. I rischi di guerra in Macedonia enel Sud della Serbia, la crisi degli accordi di Dayton in Bosnia Erzegovina, gli interrogativi sul futuro del Kosovo e il protagonismo sempre maggiore di un aggressivonazionalismo panalbanese, senza dimenticare i nodi irrisolti delle Krajine, del Sangiaccato e della possibile secessione del Montenegro disegnano scenari per i Balcaniche li tengono sospesi tra integrazione e disintegrazione. A questo si aggiunga la grave situazione sociale con la disoccupazione oltre il 50%, stipendi e pensioni che non vengono pagate (o con mesi e mesi di ritardo) e chenon coprono il costo della vita, il venir meno di ogni elementare forma di protezione
sociale; la crisi ambientale, dal Danubio, agli effetti dei bombardamenti Nato, alle conseguenze ereditate da sistemi economici e produttivi insostenibili ed inquinanti; il mancato rientro di almeno 2.000.000 di profughi nelle loro case; la debolezza politico-istituzionaleche ha lasciato mano libera alle forme più perverse della criminalità economico-finanziaria, che ha potuto fiorire proprio dentro la guerra, luogo per eccellenzadella deregolazione estrema, così come nel traffico di armi, nel riciclaggio, nel trafficking, nel mercato della droga o dei rifiuti.

LE RESPONSABILITÀ DELL'EUROPA E LA SCELTA DELL'INTEGRAZIONE

A dieci anni dall'inizio della tragedia dei Balcani, l'Unione Europea continua a nonriflettere sulle cause e sulla natura del conflitto. Si pensa invece ancora a quest'area solo come ad un terreno di incursione, rischiando di perseverare nella mera ricerca di propriearee di influenza nazionale senza sviluppare un approccio d'area complessivo. Oppure si interviene con una logica puramente emergenziale, per poi affidarsi nella ricostruzioneal presunto potere taumaturgico dell'economia di mercato e della sua capacità di auto-regolamentazione. In sostanza l'Europa deve fare un bilancio autocritico del suo comportamento (che è stato concausa delle guerre) verso i Balcani, caratterizzato da latitanza politica, inefficaciadiplomatica, incapacità di prevenzione e, soprattutto, commistione con i nazionalismi jugoslavi. L'Europa deve ancora fare i conti con la sua parte sud orientale, e più in generale con la transizione del "dopo '89", affrontata più con iniezioni di "turbocapi-talismo"e di neoliberismo selvaggio che con politiche di integrazione e di cooperazione. L'Unione Europea deve oggi fare una scelta precisa e coraggiosa: quella dell'integrazione, superando le lentezze, abbattendo le barriere (anche quelle dei visti, delle tariffe,delle protezioni commerciali) che impediscono uno sviluppo economico significativo di queste aree e la circolazione delle persone e dell'incontro delle culture e delle storiedei popoli e dei paesi. Il nazionalismo alligna nella chiusura e nell'isolamento. Obiettivo dell'Europa è rompere questo isolamento e questa chiusura sostenendo concretamenteanche la fine delle barriere tra i paesi dell'Europa sudorientale e l'inizio di una cooperazione transbalcanica.

LE PROSPETTIVE DELLA PACIFICAZIONE E DELLA RICOSTRUZIONE

Una strada da seguire, dunque, per la pacificazione dell'area è quella dell'integrazione europea, mettendo al bando ogni geopolitica o pretesa di condizionamentoneocoloniale o occidentale, ogni civetteria con qualsiasi nazionalismo locale. L'integrazione non può avvenire seguendo i parametri tradizionali, economici, contabili, direddito. Non si può affrontare il tema dell'integrazione dei Balcani e dell'Europa del dopo '89 come se fossimo rimasti alle procedure contabil-finanziarie di quindici annifa quando dovevano accedere alla Comunità Europea il Portogallo o la Spagna.
A fianco e prima dei parametri economici ne vadano individuati altri che riguardano gli standard dei diritti umani e delle minoranze e in campo sociale (servizi per idisabili, pensioni, servizi socio-sanitari, tassi di istruzione), ambientale (aree protette, difesa e gestione delle foreste e dei corsi d'acqua, gestione rifiuti, servizi idrici, interventi per il disinquinamento), di democrazia reale, di presenza e partecipazione dellasocietà civile organizzata. Sta qui, attorno a questo nodo cruciale, la possibilità di superare il vuoto progettuale che caratterizza la diplomazia ufficiale e, a ragion del vero, anche molta parte del mondo non governativo. Si tratta di riempire il vuoto tracciandoun possibile itinerario di ricostruzione incardinato a nostro giudizio su tre concetti di fondo: l'opzione per uno sviluppo locale autocentrato quale criterio di rinascita economica, l'autogoverno delle comunità come strada per ricostruire coesione ed identitàsociale, la cooperazione dal basso come strategia per rafforzare un tessuto civile e istituzionale democratico e sano. E l'Italia? Il nostro paese - nonostante l'importanza del suo ruolo nell'area - non ha un vero progetto unitario e organico della sua partecipazione alla ricostruzione e allacooperazione nei Balcani: i soggetti che intervengono non sono coordinati, manca un'ideaarmonica degli interventi sociali, economici e istituzionali, non esistono strumenti normativi adeguati. La crisi strutturale della Cooperazione allo sviluppo e la frammentazionedegli interventi istituzionali producono effetti contraddittori e negativi.
Occorre immaginare invece un percorso economico inedito, fortemente intrecciato ai saperi e alle intelligenze, unite alle tradizioni culturali e alle nuove sensibilità ambientali. Bisogna costruire un disegno di sviluppo integrato del territorio, sul quale far convergerele risorse locali e gli aiuti internazionali. Questo approccio ha come caratteristiche fondamentali di essere endogeno; di prendere come punto di partenza la logicadei bisogni: la salute, l'istruzione, i trasporti, le infrastrutture collettive, ecc.

IL RUOLO DELLA SOCIETÀ CIVILE E DELLE COMUNITÀ LOCALI

Un concetto di fondo per immaginare una rinascita dei Balcani è l'autogoverno democratico delle comunità. C'è bisogno di ricucire, sulle macerie dei regimi e delle guerre, un legame con le istituzioni pubbliche fondato sulla partecipazione e su un diffuso sistema di autonomie locali anziché su rapporti gerarchici e di delega. In altre parole, unapproccio comunitario capace di affrontare i bisogni individuali e collettivi in un'ottica diversa tanto dallo statalismo, quanto dalla privatizzazione mercantile di ogni segmentodella vita economica e sociale di un territorio. Questo percorso si è già manifestato negli anni scorsi attraverso le mille relazioni della cooperazione decentrata e della diplomazia delle città, che hanno cercato di ricostruire i ponti di dialogo e di civiltà demolitidalla guerra. Molte organizzazioni nongovernative e associazioni italiane in questi annihanno lavorato nei Balcani - anche in collegamento con quell'"altra Jugoslavia" fatta di associazioni e gruppi indipendenti, comunità democratiche che hanno resistito al nazionalismo
- con l'idea di scardinare la cittadinanza fondata sull'appartenenza etnica e dipromuovere i principi dello stato sociale e dei diritti per tutti. In ciò si è capito che a nulla serve impegnare risorse ed energie, se contestualmente non cambia il quadro sociale e politico dell'area. E questa riflessione tocca anche noi, le nostre comunità. In questosenso la vicenda jugosava parla anche di noi. La sfida della convivenza è comune a tutte le società figlie in diverso modo della globalizzazione.
Dunque nei Balcani, l'integrazione, la lotta per la democrazia e contro il nazionalismo, la ricostruzione economica e sociale procedono insieme influenzandosi l'una con l'altra, appoggiandosi spesso sugli stessi soggetti e condividendo un'unica prospettivadi trasformazione pacifica di tutta l'area. Le guerre jugoslave in questi anni ci hanno insegnato molto e continuano a farci riflettere su noi stessi, sul destino delle istituzioni e dei valori dell'Europa, sulle prospettive della democrazia nel continente. Lo spazio jugoslavo, da giungla inestricabile, può diventare un giardino dove affondino le radici della pace. Sta anche a noi coltivarlo e seguirlo, consapevoli che si tratta di un impegno e di un futuro comune.


© ICS - Osservatorio sui Balcani;


Disastri umanitari e sociali

01/09/2001 -  Anonymous User

LE UCCISIONI DI CIVILI, I DANNI MATERIALI (DISTRUZIONE DI INFRASTRUTTURE, STABILIMENTI INDUSTRIALI, ECC.) E LE CONSEGUENZE AMBIENTALI (INQUINAMENTOTOSSICO E RADIATTIVO, URANIO IMPOVERITO, ECC.) CAUSATE DALL'INTERVENTO DELLA NATO (MARZO-GIUGNO 1999) IN SERBIA E IN KOSOVO SONO SOLO L'ULTIMO TASSELLODI UN DECENNIO DI DEVASTAZIONI CHE HANNO SCONVOLTO I PAESI DELL'AREA DELL'EX JUGOSLAVIA E CHE HANNO CAUSATO OLTRE 300.000 MORTI, PIÙ DI 2.700.000PROFUGHI, LA DISTRUZIONE GENERALIZZATA DI CITTÀ COME VUKOVAR, MOSTAR, SARAJEVO (E DI TANTE ALTRE CITTÀ E VILLAGGI), LA DEVASTAZIONE DEL TESSUTO SOCIALE,COMUNITARIO, CIVILE, UMANO, LA RIDUZIONE DELLE ECONOMIE DEI PAESI EX JUGO-SLAVI AL DI SOTTO DEI LIVELLI DI SUSSISTENZA.

Prendiamo proprio le conseguenze di dieci anni di guerre sulla situazione economica:i dati economici parlano chiaro: la disoccupazione è a percentuali altissime:
oltre il 40% in Bosnia e oltre il 30% in Macedonia e Repubblica Federale di Jugoslaviae quasi il 25% in Croazia. La Macedonia ha avuto una contrazione del 4% della propria
crescita economica nel corso del 1999. Tra il 1990 e il 1995 il PIL in termini realisi è ridotto di quasi il 30%, il volume dei traffici commerciali è sceso del 40% e i consumi sono caduti ad un tasso del 5% annuo. Si calcola che nella Repubblica Federale di Jugoslavia a causa delle conseguenzedella guerra - con la distruzione di infrastrutture e industrie - saranno
necessari 15 anni per ritornare ai livelli produttivi prebellici. Le stime riguardo alladisoccupazione parlano di 800.000 persone senza lavoro (oltre il 35% della popolazione attiva) e ben il 60% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà.Nel '99 la produzione industriale è diminuita del 23% ed ora continua ad essere a livelli nettamente inferiori a quelli anteguerra. Inoltre va ricordata la situazione drammaticadei profughi (circa 800.000) che vivono in FRJ e che non riescono a tornare alle loro case in Kosovo, in Bosnia e nelle Krajine.
Oggi la situazione della Croazia, dopo l'avvento del governo democratico diRacan (gennaio 2000), sembra sulla via della lenta ripresa. Va ricordato che solo un
anno fa la produzione industriale era il 20% di quella del 1990; i livelli produttivi didieci anni fa dunque sembrano ancora lontanissimi. La disoccupazione è oltre il 22%
(settembre 2000). Ad un tasso d'inflazione contenuto (non superiore al 4%) corrispondeperò un pesante debito estero: 9,9157 miliardi (giugno 2000). In Croazia il 40% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. Oggi quella della Bosnia è un'economia di sussistenza con larghe sacche di povertà: i dati riportati mostrano l'elevato tasso di disoccupazione nelle due entità territoriali bosniache. La disoccupazione è oltre il 40% nella Federazione mentre senzai finanziamenti internazionali - come già ricordato - la percentuale del PIL nel 1999
avrebbe fatto registrare un desolante -1%. Il PIL procapite bosniaco è il 3,3% di quellodegli Stati Uniti. Va ricordato che degli aiuti internazionali (più di 5 miliardi tra il 1995 e il 1998) arrivati circa il 20% è andato disperso, male utilizzato o finito nellereti dell'economia illegale e mafiosa. Solo il 10% di questo aiuto è stato destinato ai settori produttivi che oggi arrivano solo al 28% di quelli del 1991, l'anno precedenteallo scoppio della guerra. Riguardo ai profughi bosniaci va ricordato che in Bosnia Erzegovina erano rientrati nel 1999 circa 395.000 dei profughi che avevano abbandonatoil paese durante la guerra.
In Montenegro - centro di numerosi circuiti mafiosi e criminali - oltre il 40%
della popolazione montenegrina vive sotto la soglia della povertà e le perdite finanziarieper gli effetti delle sanzioni sull'economia generale del Montenegro sono state stimate approssimativamente in 6.39 miliardi di dollari. In Kosovo, dopo la cospicua assistenza della Federazione Jugoslava, la sopravvivenzadell'area è ancora legata all'aiuto della comunità internazionale per almeno molti anni. Il varo del Patto di Stabilità (Sarajevo, luglio 1999) con la partecipazione degliorganismi internazionali e dell'Unione Europea aveva aperto qualche speranza di ricostruzione,
di cooperazione e di integrazione nell'area, ma ben poco è stato fatto. Moltisoldi sono stati promessi (10.000 miliardi di lire solo dall'Unione Europea nel periodo 2000-2006), ma pochi sono stati effettivamente spesi. Inoltre ciò che è stato realizzatoè andato soprattutto a sostegno degli interventi per le infrastrutture e le vie di comunicazione: si tratta di ben il 90% dei fondi finora stanziati. Solo le briciolesono andate alla ricostruzione sociale e agli interventi di sviluppo umano. Sembrano così confermate le linee di tendenza di una strategia della ricostruzione verso l'areabalcanica che invece di privilegiare interventi a favore dell'integrazione e della cooperazione nell'Unione europea e tra i paesi dell'area propone un approccio estemporaneoe di breve respiro, legato magari a qualche interesse economico o di penetrazione commerciale. Altri - le organizzazioni non governative, le comunità locali,il terzo settore, ecc. - hanno proposto una diversa strada: un sostegno economico e una strategia cooperativa che valorizzino l'impatto integrativo, la formazione delcapitale sociale e delle risorse umane, lo sviluppo della comunità e delle democrazie locali, la costruzione di piani territoriali, l'economia sociale. E' questa la stradadi uno sviluppo umano e sostenibile che assicuri la transizione e l'integrazione nella
pace di tutti i Balcani.

© ICS - Osservatorio sui Balcani;


Aiuti, diplomazia popolare, solidarietà

01/09/2001 -  Anonymous User

A GLI INIZI DI GIUGNO DEL 1992 COMPARVE SULL'UNITÀ UN EDITORIALE,DAL TITOLO: "MA DOVE STANNO I PACIFISTI?", IN CUI CI SI INTERROGAVA COME
MAI PER SARAJEVO - ALLORA ALL'INIZIO DI UN LUNGO ASSEDIO- NON C'ERANO STATE LESTESSE MANIFESTAZIONI CHE ERANO STATE ORGANIZZATE CONTRO LA GUERRA IN VIETNAM.
Don Tonino Bello aveva così risposto dalle colonne di un altro quotidiano, quelle de
L'Avvenire: "Non stanno nelle piazze: non saprebbero che fare dal momento che nonè identificabile un soggetto preciso contro cui prendersela, stavolta. Non stanno a far
chiasso in corteo: fatica sprecata, visto che certi clamori non si sa bene, in questo caso,chi dovrebbe ascoltarli ... Voi lo sapete dove sono andati a finire i pacifisti. Li troverete
negli innumerevoli laboratori d'analisi in cui si smaschera la radice ultima di ogniguerra e quella ultimissima del suo archetipo di sangue: il potere del denaro. Li troverete
nei luoghi dove si formano le nuove generazioni a compitare le letture sovversivedella pace, facendo loro capire che i cannoni non tuonano mai amore di patria, ma sillabano
sempre in lettere di piombo la suprema ragione dell'oro. Li troverete là dovesi coscientizza la gente sulle strategie della nonviolenza attiva e la si educa a vivere
in una comunità senza frontiere e senza eserciti. Li troverete là dove, scoprendo tuttal'impostura dell'antico mito della città che si fonda sul sangue, si mostra che invece
è possibile fondarla sulla solidarietà...".

20.000 VOLONTARI

Molti pacifisti erano - ai tempi dell'editoriale de l'Unità - già in Jugoslavia a fiancodelle vittime della guerra. Nell'ex Jugoslavia le iniziative di volontariato, le esperienze
di diplomazia popolare dal basso, l'azione umanitaria e il sostegno alle forze democratichee non nazionaliste sono state molte diffuse sin dall'inizio, come in nessun altro
conflitto. I numeri lo testimoniano. Diverse fonti (Ics-Consorzio Italiano di Solidarietà,Agesci, Forum del Terzo Settore) concordano nello stimare in almeno 20.000 i volontari,
gli operatori umanitari e in generale i civili che si sono recati nelle aree della exJugoslavia per realizzare interventi umanitari, di interposizione e di cooperazione. E
sono stati, in base a queste stime, almeno oltre 1.200 le associazioni, i gruppi grandie piccoli, le parrocchie, le scuole, i comitati spontanei che si sono mobilitati per la solidarietà con le aree colpite dal conflitto. E per l'accoglienza diretta ai profughi: più di
5.000 in Italia, più di 45.000 nelle aree di conflitto. Analogamente si possono fare stime così significative anche per gli enti locali e, a alla luce dei dati accumulati fino ad oggi,si può realisticamente affermare (si tratta anche in questo caso di una stima prudente)
che in questa esperienza di intervento umanitario e di cooperazione con l'Europacentrale, orientale e balcanica siano stati coinvolti non meno di 1.000 enti locali.

IL PACIFISMO CONCRETO

Si potrebbero citare, a fianco delle mobilitazioni umanitarie, le tante iniziative politiche
e pacifiste promosse con alterni risultati: la "Carovana della pace" da Trieste aSarajevo (settembre 1991), la "marcia dei 500" a Sarajevo (dicembre '92) e "Time for
peace" in tutti i territori jugoslavi (dicembre '92), Mir Sada (agosto '93), "Tre città, unapace" (dicembre '93) ... e tante altre. E poi le manifestazioni in Italia: a Trieste nel giugno
del '91, il corteo da Ancona a Falconara nell'aprile del '93 e la marcia Perugia-Assisinel settembre '93, "mille giorni bastano!" a Roma per i mille giorni di assedio di Sarajevo
nel dicembre del 1994 e poi nel luglio del '95, manifestazioni e cortei in 50 città italianecontro le stragi di Srbrenica e Zepa. E poi, recentemente: le manifestazioni a Roma,
Aviano, da Perugia ad Assisi nel 1999 contro l'intervento della Nato in Kosovo.
Ma la novità del pacifismo di fronte al dramma jugoslavo si è manifestato "sulcampo". Il lavoro pacifista e di volontariato è stato uno strumento per conquistare la
fiducia delle comunità coinvolte nel conflitto e per ristabilire dei ponti di dialogo, esercitando un ruolo di pacificazione concreto e sul campo. Ha detto Alex Langer: "I pacifisti, anzi, sono più presenti che mai nel conflitto jugoslavo. Con meno tifo e meno bandiere, meno slogan e meno manifestazioni, ma con un'infinita quantità di visite, scambi,aiuti, gemellaggi, carovane di pace e quant'altro. Un pacifismo (finalmente!) meno gridato, ma assai più solido e concreto. Il che vuol dire anche più complicato, perchéla vita è complicata, e la pace non si ottiene per vie semplicistiche: né con il sostegno unilaterale alle parti ritenute 'buone', e neanche con l'idea che un massiccio interventoarmato esterno potrebbe pacificare la regione".
E fu nell'ambito del sostegno concreto alle alternative democratiche che fu promosso
dall'Associazione per la pace e dall'Arci nel maggio del 1995 a Perugia un incontrotra Milorad Dodik, presidente del gruppo di 11 parlamentari serbi indipendenti
del Parlamento di Pale che si opponevano a Karadzic e Sejfudin Tokic, leader dei social-democratici bosniaci all'opposizione di Izetbegovic. Fu firmato un documento comunea favore della Bosnia multietnica, ma come ricorda Stefano Bianchini: "l'evento fu ignorato dalla stampa e i partecipanti invitati dal mondo politico ad "adeguarsi" allarealtà". Come al solito i pacifisti sostenevano le forze democratiche e l'occidente trattava con le leadership nazionaliste.
Quella dei volontari è stata la più vasta mobilitazione pacifista e umanitaria internazionale realizzata dal tessuto della società civile e degli enti locali negli ultimi anniche - pur concentrata in gran parte nella fase dell'emergenza bellica con l'invio degli aiuti e l'assistenza ai profughi - ha avuto un significativo prolungamento nella fase dellaricostruzione e ora della cooperazione.

GLI INSEGNAMENTI

Nel corso di questi anni abbiamo imparato che le guerre jugoslave parlano di noi, delle contraddizioni irrisolte della costruzione dell'Europa e del processo di integrazione, della crisi dello Stato nazionale e del nazionalismo come risposta alla modernizzazione, dei valori conclamati (convivenza, multietnicità, solidarietà) da un'Europache li ha sistematicamente traditi a Sarajevo, Belgrado, Pristina. Nel corso di questa esperienza società civile ed enti locali hanno maturato, in condizioni drammatiche di guerra, non solo una approfondita conoscenza dei territori dovehanno iniziato ad operare, ma anche acquisito nuove metodologie e approcci originali
di intervento rispetto ad un'area dalle dinamiche politiche, sociali e culturali complesse.
Da subito - anche nel corso degli interventi di emergenza e di invio di aiuti nellaprima metà degli anni '90 - l'approccio culturale e le metodologie operative utilizzate hanno teso a sostenere e a valorizzare il tessuto sociale e comunitario, la società civilelacerata dal conflitto, le forze che si opponevano al nazionalismo. Infatti in un conflitto che aveva tra i suoi obiettivi la pulizia etnica, la rottura della convivenza (colpendo adesempio le città simbolo della multietnicità come Mostar e Sarajevo), la distruzione del tessuto comunitario interetnico era necessario difendere le isole di resistenza a questafolle logica bellica e nazionalista: fu questa la ragione del sostegno a situazioni così diverse come la città multietnica di Tuzla in Bosnia, il sistema dei media indipendenti in tutte le aree della ex Jugoslavia, le esperienze di incontro e cooperazione multietnica (forse
l'unica insieme a quella dei giornalisti) delle donne di tutte le repubbliche jugoslave.
Inoltre la "crisi jugoslava", dopo la drammatica fase postbellica, ha evidenziatonell'esperienza della società civile e degli enti locali l'affinamento di metodologie e approcci legati ad una fase dell'intervento che si situa tra l'emergenza e la cooperazione,quello del post conflict o del peace building (cosa diversa dalla ricostruzione in senso stretto) che è particolarmente importante per costruire le condizioni di cooperazionee di sviluppo in territori colpiti da conflitti etnici dove sono state divise le comunità, è stato lacerato il tessuto sociale, sono state ferite le istituzioni democratiche.

SVILUPPO UMANO E SOCIALE

È per questi motivi che la cooperazione della società civile e degli enti locali può avere un ruolo importante e strategico, se adeguatamente sostenuta e valorizzata dalle istituzioni nazionali ed internazionali. Così finora non è stato. Nell'elaborazione delleorganizzazioni della società civile e degli enti locali è stata in questi ultimi mesi ripetutamente criticata l'impostazione di una strategia sulla ricostruzione fondata preva-lentementesugli interventi di natura invasiva rivolti agli aspetti materiali infrastrutturali, lasciando sullo sfondo la priorità della ricostruzione sociale, civile e democratica delle aree interessate. Nonostante gli organismi comunitari ed internazionali, ed anche istituzioni come Banca Mondiale e FMI abbiano sostenuto a parole l'importanza di investire sullo "sviluppo umano" e sociale, nella pratica ben pochi soldi sono stati spesi per questo proposito: l'ingente massa delle risorse è stata indirizzata alle infrastrutture, alsostegno del mercato, allo sviluppo delle vie di comunicazione. La cornice dei programmi del Patto di Stabilità evidenzia un assoluto ritardo nel sostenere progetti e interventi nella direzione dello sviluppo umano e sociale. Lo stessovale per l'Italia che ha destinato solo il 25% (nominale, perché in realtà le somme
effettivamente stanziate sono la metà di quelle dichiarate e promesse) dell'intera sommaper i progetti del Patto (304 miliardi a marzo del 2001) ai progetti del Tavolo 1 (sulla democratizzazione e i diritti umani), mentre tutto il resto è andato a sostenereprogetti su vie di comunicazione, infrastrutture e - in minima parte - alla ripresa delle attività produttive. È evidente che in questo contesto istituzionale di investimento marginale a favoredell'intervento per lo sviluppo umano e sociale, le organizzazioni della società civile si sono mosse con scarsità di mezzi, affidandosi a strategie di progettualità, in parteautosostenute, fondate sulle relazioni e cooperazione tra comunità. Il tema è proprio questo: come sostenere una strategia -che pacifisti, volontari e comunità locali hannocercato di promuovere- della ricostruzione fondata sullo sviluppo umano e sociale e non sugli interessi degli interventi economici privati o sulla miopia dei grandi donatori inter-nazionali e delle politiche neoliberiste delle istituzioni finanziarie internazionali.

SOCIETÀ CIVILE ED ENTI LOCALI AL LAVORO

Organizzazioni della società civile ed enti locali hanno individuato nel corso diquesta esperienza di cooperazione e di intervento umanitario con i paesi colpiti dai conflitti e dalle tensioni interetniche nell'Europa centrale, orientale e balcanica, alcunedirettrici fondamentali del proprio impegno che hanno ispirato gli interventi concreti realizzati e quelli in via di progettazione.
Tra questi vanno ricordati il sostegno alle democrazie locali e alle società civilicon programmi specifici di gemellaggio, cooperazione decentrata, formazione degli amministratori locali, sviluppo di reti di protezione e di rafforzamento del tessuto civile e democratico, attraverso il sostegno alle associazioni e ai media. In secondo luogova evidenziato l'impatto strategico dell'investimento sulla formazione, gli scambi culturali e la cooperazione universitaria, come antidoto a ogni tentazione di chiusurae nazionalista, come costruzione di opportunità di lavoro. In questo senso la sperimentazione di forme originali di economia locale e sociale che aiutino la coesione diun tessuto comunitario lacerato, il potenziamento dei servizi alla comunità e il welfare distrutto dalle politiche degli anni '90, uno sviluppo economico "labour intensive" inpaesi di crescente disoccupazione, diventa un obiettivo di fondo: aiuto al terzo settore, alle imprese sociali e di tipo cooperativo e al microcredito sono i programmi già avviatie da potenziare. Nel sostegno di un intervento a forte tasso sociale e comunitario, centrale è l'intervento a favore della tutela dell'ambiente. Infatti questo da una parterisponde all'esigenza di sanare le gravi ferite prodotte dalle guerre con la devastazione
del territorio, dall'altra può avere un impatto di tipo integrativo e di sviluppointegrato con alcune attività economiche. Va infine ricordato che gli obiettivi dell'intervento delle organizzazioni della
società civile e degli enti locali non sono dissimili da quelli prevalentemente solo dichiarati dalle istituzioni della comunità internazionale: sviluppo e cooperazione economicaintegrazione europea e transbalcanica, sostegno alla democratizzazione e promozione dei diritti umani, la pace e la sicurezza e - questione ancora irrisolta - una stabilizzazionedell'area che riconosca il principio della convivenza multietnica con il ritorno dei profughi alle loro case: problema che interessa ancora 2.000.000 di persone di tuttala ex Jugoslavia. Come ricorda il Dossier sulla ricostruzione dei Balcani elaborato dall'ICS "... Ci sono tanti progetti che potrebbero essere approvati e sviluppati e che sarebbero simbolicamenteimportanti: un progetto sul modello Erasmus per far circolare 50.000 giovani "da e per" i Balcani; un programma generalizzato di microcredito per sostenere l'economiasociale e le nuove micro-imprese in campo agricolo e ambientale; un pro-gramma
di institutional building per 500 municipi di tutte le aree per gemellaggi e formazioneamministrativa; un piano straordinario che faccia del Danubio un'arteria di commerci, di trasmissione di culture e di incontro per i sette paesi di quest'area, un pianoper far rientrare già nel 2001-2002, 20.000 profughi serbi in Krajina, sviluppando in questo modo un'area depressa a ridosso dell'Adriatico..." .
Esempi e idee non mancano. Naturalmente istituzioni internazionali, comunitarie e nazionali devono essere convinte della giustezza di una strategia unitaria - nonseparando mai ricostruzione economica, democratizzazione, pacificazione e sviluppo sociale - per sradicare il nazionalismo e ricostruire la pace nella regione, evitando glierrori fatti in questi anni.

© ICS - Osservatorio sui Balcani


L'altra Jugoslavia contro i nazionalismi e le guerre

01/09/2001 -  Redazione

Rada, Mirjana, Halit, Suada, Sicko, Lino, Blanka. Sono uomini e donne dell' "Altra Jugoslavia", che non hanno condiviso il nazionalismo e la discesa in guerra. Che hanno manifestato, hanno disertato pagando con la vita o la carcerazione, oppure hanno 'semplicemente' sottratto alla pulizia etnica persone di un'altra nazionalità


Genova vista dai Balcani

31/07/2001 -  Michele Nardelli

Mentre gli otto signori della Terra si riunivano nel cuore blindato di Genova, in Macedonia le armi riprendevano il sopravvento sul dialogo. Quasi ad avvalorare l'idea che in fondo i Balcani siano "altro" rispetto ai processi della globalizzazione, un'area di crisi certamente nell'agenda del G8 ma rispetto alla quale l'impegno e il disimpegno delle maggiori potenze industrializzate del pianeta venisse misurato sul piano militare piuttosto che nella malcelata idea che in quell'area ognuno gioca per sé.Un mondo a parte, per usare l'espressione di Gustaw Herling, rimasto tale anche dopo l'89 per la funzionalità della destabilizzazione ai processi di accumulazione senza regole e di finanziarizzazione dell'economia. Oppure per non turbare schemi consolidati e pigrizie culturali.
Il fatto è che nel tempo della globalizzazione i tradizionali punti cardinali hanno assunto un significato diverso, il mondo non è più diviso fra nord e sud, fra paesi ricchi e paesi poveri o impoveriti. Nella "globalizzazione reale" si sono delocalizzate le disuguaglianze e le grandi contraddizioni del presente per cui il sud è nel nord e viceversa, est e ovest si confondono (nel rincorrere il mercato, tanto per fare un esempio). E dentro questa nuova dislocazione a-spaziale e a-temporale delle economie (ma per non sbagliarsi sostenuto da un accentuato controllo politico e militare nelle aree considerate strategiche), il sud est europeo assume un ruolo tutto particolare (e indicibile), tutt'altro che favorevole alla prospettiva dell'integrazione europea.
Di questa partita, che fa dei Balcani uno dei simboli della modernità, non sembra affatto esserci consapevolezza. Evidentemente, dieci anni di guerra e di deregolazione selvaggia nell'est europeo non sono serviti a mettere a fuoco il significato profondo di quegli avvenimenti.
Un ritardo di analisi che sembra prevalere anche nei commenti che dai paesi dell'area balcanica vengono sul summit di Genova, dall'atteggiamento che emerge dai media bosniaci, quasi a rivendicare col cappello in mano la possibilità di essere parte di un processo del quale non ci si accorge di essere (ahimè) protagonisti; all'approccio quasi rancoroso dei media croati, dopo aver preso atto che la quarantena durerà ancora a lungo, affidandosi nel giudizio sul vertice del G8 - non senza ipocrisia - alla critica vaticana verso il mondo dei ricchi; al più maturo e distaccato atteggiamento dei media serbi, dove prevale una lettura più politica e fortemente critica verso la natura di una globalizzazione concepita come strumento di delegittimazione delle sovranità nazionali.
Ne esce un quadro che se riflette molto bene gli stati d'animo dei contesti nazionali, non sembra percepire che nei Balcani la globalizzazione è il presente ed ha la faccia che abbiamo conosciuto nella tragedia balcanica di questi anni. Una riflessione che deve investire anche lo stesso movimento "no global", che purtroppo poco ha coinvolto finora i possibili interlocutori del sud est Europa.
Eppure nei Balcani esistono già gruppi e associazioni della società civile che in questi anni si sono attivati sul piano del dissenso alla guerra e alle politiche di regime, della difesa dei diritti dei gruppi socialmente ed economicamente più deboli, della difesa dell'ambiente, benché solo una piccola rappresentanza di essi partecipi alla rete che da Seattle a Genova ha raccolto le molte anime critiche verso questa globalizzazione. Qualcosa dunque comincia a muoversi, tanto che negli ultimi giorni in Croazia si è costituito il movimento HAG anti-global.
Anche nel ragionamento sui temi della globalizzazione è dunque possibile immaginare un percorso comune "dal basso" che rompa l'isolamento dei Balcani dall'Europa e dal resto del mondo. E anche a partire da quest'ultima considerazione nasce la proposta di collocare qui, in una delle grandi capitali dell'est europeo, una delle prossime sessioni del World Social Forum.

Fonti: Lino Veljak da Zagabria, Ada Sostaric da Belgrado, Dario Terzic da Mostar


Ordinaria globalizzazione

16/06/2001 -  Michele Nardelli

C'è un luogo dove le dinamiche della globalizzazione si esprimono in forme anticipatorie tanto da farne uno snodo emblematico di indagine sulla post modernità. E che si tende ad ignorare, un po' perché la rimozione è il tratto caratteristico del nostro rapporto con questa parte d'Europa tanto diversa e ricca di civiltà e intrecci culturali, un po' perché non rientra negli schemi semplificati ai quali ci ha abituato il '900.

La lettura degli avvenimenti balcanici degli ultimi dieci anni come il prodotto di arcaici risentimenti nazionali ed etnici, quanto meno superficiale, ha contribuito a non far cogliere appieno il segno di questa moderna tragedia nel cuore dell'Europa. Certo, dieci anni di guerre non si spiegano senza una base ampia di consenso ed il richiamo nazionalistico ha avuto esattamente questa funzione. Così il disegno di una nomenklatura che decide di succedere a se stessa, può anche essere considerato il colpo di coda nell'agonia dei vecchi regimi, ma questa semplificazione non aiuta certo a capire.

C'è qualcosa di terribilmente moderno nelle vicende che hanno segnato i Balcani degli anni '90, che ha a che vedere con le dinamiche della globalizzazione nella crisi degli stati, nel prevalere della dimensione finanziaria dell'economia, nel controllo dei corridoi strategici fra l'Europa, il Caucaso e l'Oriente, nella sperimentazione dei più sofisticati sistemi d'arma e nell'intreccio fra deregolazione e neoliberismo. Uno scenario nel quale non possiamo non rispecchiarci.

Anche le maschere di questo tragico giuoco, che hanno interpretato al meglio il ruolo loro assegnato di croupier di un'immensa area off shore dove l'unica regola è la corruzione, assomigliano in maniera inquietante a certe maschere di casa nostra. Come dovrebbe far riflettere che a certe cancellerie occidentali personaggi come Milosevic fossero più funzionali di Kostunica, Karadzic di Dodik o di Ivanic, Tudjman di Racan, e così via.

È come se con la fine del bipolarismo si fosse aperta un'enorme voragine in grado di funzionare come fattore di attrazione di illimitati traffici ed affari, dove allocare i santuari dell'accumulazione finanziaria. Il che dovrebbe far riflettere sulla natura di chi ha vinto la partita del secolo scorso, come del resto sull'annebbiamento delle coscienze lasciato in eredità dai regimi.

Non è affatto casuale che gli industriali del nord est si riuniscano non a Treviso ma a Timisoara, in Romania, laddove 7203 imprese italiane imperversano nello sfruttamento di manodopera a costo zero, nell'assenza di regole né ambientali, né tanto meno sociali. O che i Balcani siano diventati lo snodo dei traffici più criminali, armi, droga, sigarette, per non parlare del traffiking di donne e bambini, del riciclaggio del denaro sporco, in un intreccio fra economia legale ed illegale dai contorni sempre più sfumati.

Così come non è per nulla casuale che i paesi dell'est europeo stiano diventando la pattumiera di un modello di sviluppo immorale, dissipativo ed insostenibile. All'eclatante decisione del parlamento russo di trasformare la Siberia in un'immensa discarica nucleare, corrispondono i mille episodi, solo in minima parte conosciuti, di trasformazione dei vecchi siti minerari di quella che un tempo era la Jugoslavia in altrettanti depositi di scorie tossiche e radioattive provenienti da ogni parte del mondo.

Deregolazione e povertà, poteri mafiosi e corruzione, sono gli ingredienti attraverso i quali l'altra metà dell'Europa viene inclusa ed esclusa al tempo stesso. Un immenso casinò, dove si gioca sul presente e sul futuro di un'umanità annichilita dalle macerie del comunismo e delle guerre, comprese quelle "umanitarie", compreso il "circo umanitario" che spesso le segue, altrettanto invasivo ed insostenibile. Pensare che non ci ricada addosso è solamente irresponsabile.
La globalizzazione non è un'astrazione ideologica, è il nostro presente. Capirne gli effetti è importante quanto contestarne le rappresentazioni.


Nuova intesa tra l'Osservatorio e l'ICS

25/05/2001 -  Anonymous User

(25.05.2001) Il Consorzio Italiano di Solidarietà e l'Osservatorio sui Balcani hanno firmato un protocollo di intesa che unirà le due realtà nel monitoraggio critico a livello sociopolitico ed economico, di approfondimento e ricerca, analisi e definizione di strumenti operativi. La collaborazione fra le due parti si concretizzerà nella messa in comune delle informazioni a propria disposizione e nella realizzazione di approfondimenti tematici comuni (dossier, pubblicazioni, formazione, ecc...).


Un giorno lungo una vita

24/05/2001 -  Agostino Zanotti

Il diario di Agostino Zanotti sul viaggio a Travnik per testimoniare al processo contro Paraga, il responsabile del gruppo di militari che il 29 maggio del '93 presso Gornj Vakuf sparò contro i componenti di un convoglio umanitario uccidendo Fabio Moreni, Sergio Lana e Fabio Puletti. Solo Agostino e Christian Penocchio si salvarono. Ora devono testimoniare


Programmare gli interventi nel Meditteraneo

10/05/2001 -  Anonymous User

L'ICS, il Consorzio Italiano di Solidarietà organizza per i prossimi 18-19-20 maggio, l'Assemblea di programma dal titolo "La sfida della solidarietà" che vede all'ordine del giorno Balcani, Medio Oriente, Mediterraneo, accoglienza dei rifugiati. Per partecipare all'assemblea contattare la segreteria.


Sarajevo rinascerà con le olimpiadi?

06/05/2001 -  Anonymous User

Intervista a Muhidin Hamamdzic, Sindaco di Sarajevo


Per un'integrazione certa, rapida, sostenibile e dal basso

05/05/2001 -  Anonymous User

Si è chiuso, all'interno del World Social Forum, l'incontro "Disegnare l'Europa: i Balcani tra integrazione e disintegrazione", organizzato da ICS e Osservatorio sui Balcani.