Bosnia Erzegovina - Articoli

Oslobodjenje in sciopero: sospesa l'uscita del giornale

21/05/2001 -  Anonymous User

Il giornale bosniaco Oslobodjenje, conosciuto per aver continuato a stampare anche durante il duro assedio di Sarajevo dall'Aprile del 1992 al dicembre del 1995, non esce in edicola da venerdì scorso per uno sciopero indetto da redattori e dipendenti del giornale. I lavoratori di Oslobodjenje hanno deciso la protesta affinché una volta per tutte vengano ascoltate e soddisfatte le loro richieste, avanzate ormai da mesi. Tra queste il pagamento degli stipendi arretrati, la sostituzione del direttore generale, del vicedirettore e del caporedattore.

Come dichiarato dal Sindacato (Habena, 21 maggio), le trattative continueranno nel pomeriggio di domani, giorno in cui si prevede l'arrivo e la partecipazione dei rappresentanti dei partner sloveni proprietari del pacchetto di controllo del giornale.

Durante l'assedio alla città di Sarajevo, Zlatko Dizdarevic - allora direttore di Oslobodjenje - lanciò moltissimi appelli affinché si sostenesse l'uscita del giornale anche in condizioni così dure e al limite della sopravvivenza. Alcune tra le realtà italiane che raccolsero l'appello furono l'Associazione per la Pace e l'ICS, che tramite la campagna "Sarajevo cuore d'Europa" riuscirono a fornire - tra il 1993 e il 1994 - supporto finanziario e materiale al giornale. Forse vale la pena ricordare che già nei primi mesi di assedio il palazzo venne pesantemente bombardato dall'esercito serbo-bosniaco, e i giornalisti dovettero tutti concentrarsi a lavorare nei piani inferiori e nei sotterranei del palazzo. Oggi l'edificio è ancora così come si è presentato alla fine di quattro anni di assedio (foto). La decisione delle varie forze politiche che in questi sei anni si sono alternate nell'amministrazione della città è sempre stata unanime: il palazzo non verrà ricostruito e rimarrà a ricordo, si spera deterrente, di ciò che è accaduto a Sarajevo.


La comunità internazionale in Bosnia: tutti i nostri sbagli

12/05/2001 -  Anonymous User

Sono passati più di 5 anni dalla firma degli accordi di Dayton, che al tempo vennero considerati il programma di salvezza per la Bosnia Erzegovina. In realtà, il piano ideato dalla comunità internazionale cominciò ad essere criticato fin dai primi giorni e lo è tutt'oggi. Ultimamente in Bosnia si sta valutando tutto ciò che i Grandi (non) sono riusciti a risolvere. Rispetto alla considerazione di quanto fatto dalla Comunità nternazionale in Bosnia, molto è cambiato dopo gli ultimi incidenti di Mostar.

Non si può dimenticare quanto è accaduto l'8 aprile scorso, quando alcuni collaboratori dell'ufficio dell'Alto Rappresentante in Bosnia (OHR), accompagnati dai carabinieri italiani, vennero picchiati e umiliati da estremisti croati davanti alla famosa "Hercegovacka Banka".

Ma per quale motivo l`operazione nei confronti della banca erzegovese non è riuscita?

Nessuno vuole ammettere il proprio senso di vergogna, ma pare (da fonte anonima) che tutto sia accaduto per un banale errore di coordinamento. Il contingente Sfor francese interpretò male il codice dell'operazione che indicava un'operazione di primo grado (ad alto livello di rischio) scambiandola con un codice simile a quella di un'operazione di terzo grado (livello medio-basso). Così i soldati della Forza Internazionale decisero di non utilizzare tutti i mezzi di difesa necessari, e vennero sopraffatti facilmente dalla folla.

Sembra che l'azione degli estremisti croati abbia rappresentato per la comunità internazionale in Bosnia una vera lezione, attraverso la quale oggi capisca con chi ha veramente a che fare. Al contempo questo fallimento di Mostar è servito come pretesto ad alcuni cronisti per stilare una lista di tutti gli errori commessi dagli internazionali nel periodo post-Dayton. Va detto che in questi cinque anni non si è riusciti a garantire il funzionamento delle istituzioni bosniache e allo stesso tempo, pur spendendo centinaia di migliaia di dollari, l'intervento esterno non è risultato efficace.

E' vero che i soldati dello SFOR alla fine sono riusciti ad entrare nell'Hercegovacka Banka e ad aprirne la cassaforte usando la dinamite; ma forse la vera impresa sarebbe stata quella di arrestare Ante Jelavic (il leader nazionalista croato, tra i princiali fomentatori dei disordini). E da sempre la comunita' internazionale si è mostrata poco efficace nel giudicare i politici bosniaci: "gli internazionali hanno cercato a lungo di proteggere Biljana Plavsic e successivamente Milorad Dodik" dice Chris Benet, capo del International Crisis Group, "mentre nel frattempo non sono stati affrontati i veri problemi della Republika Srpska".

Si ricordi che alla fine del 1999 la stessa signora Plavsic venne invitata a Parigi dal presidente Chirac, in un periodo in cui già si parlava del suo possibile "viaggio" a L'Aja. Già altre volte la diplomazia francese in Bosnia si era dimostrata incauta, come quando la sua diplomatica Froment Maurice dichiarò: "La Bosnia Erzegovina non è un vero stato, e prima o poi la Republika Srpska si unirà alla Jugoslavia. In Francia questo lo chiamiamo diritto all'autodeterminazione".

Non solo: ci è voluto molto tempo per l'arresto di Momcilo Krajisnik. La causa contro di lui era pronta già nel 1996, ma i politici internazionali ordinarono di lasciarlo tranquillo, perchè la sua figura veniva considerata molto importante per il mantenimento della pace nel paese. Simile e` la vicenda di Biljana Plavsic: nel 1998 Gabrielle Krick Mcdonalds, allora Presidente del Tribunale Internazionale a L'Aja, dichiaro` che "il tribunale non potrà dimenticare il ruolo della signora Plavsic nel genocidio". Essendo però considerata una fautrice del cambiamento democratico in Repubblica serba di Bosnia, la Plavsic risulta citata nei processi solo per i baci scambiati con il comandante Arkan a Bijeljina nel 1992. Anche nel suo caso la causa era pronta già da tempo, ma venne resa pubblica solo quando si considerò la vecchia professoressa non più politicamente utile.

Per quanto riguarda la componente croata in Bosnia, si è parlato molto di Jadranko Prlic, ex Ministro degli esteri del governo federale.

Prlic, rispetto alla Plavsic, non si è lasciato mettere politicamente da parte e continua ad occuparsi di politica. E difatti i politici internazionali, non trovando un altro leader croato con le sue stesse
capacità, continuano a collaborare con lui. Una volta, ad una richiesta di spiegazioni in merito posta dal sottoscritto al signor Stocker - allora capo della Croce Rossa in BiH - la risposta fu: "Noi sappiamo che Prlic è responsabile dell'esistenza dei campi di concentramento in Erzegovina, ma nel lavoro con noi è molto valido".

E da allora pare non sia cambiato nulla: lavorare bene per la comunità internazionale significa anche poter rimanere impunito e non doversi assumere la responsabilità delle proprie azioni passate? Chi lo sa, comunque si dice che la causa contro Prlic sia rimasta in sospeso. "Prlic è stato il cervello della Herceg-Bosna, ma non è ancora giunta l'ora del suo arresto" dice una fonte de L'Aja per il settimanale Slobodna Bosna (26.04.2001).


Niente pensioni per i mostarini

12/05/2001 -  Anonymous User

Il fondo per le pensioni di Mostar è vuoto, dice il suo direttore Ivan Bender (BHTV 24.04.2001), e la colpa è tutta della Hercegovacka Banka. Quando si troverà il denaro per riempire il grande buco che si è creato, avremo le condizioni per versare le pensioni.

La storia della banca erzegovese ha cambiato il volto dell'intera regione. Di questa banca non si serviva solo l'intera area della cosiddetta Herceg-Bosna (la zona a maggioranza croata della Bosnia) ma anche molte istituzioni della parte bosniaca di Mostar. Così tutti gli impiegati delle scuole, delle istituzioni culturali e degli ospedali di Mostar est (la parte a maggioranza musulmano-bosniaca) sono rimasti senza stipendio, perché era sempre stata l'Hercegovacka Banka a coordinare il sistema di pagamento nella zona. In ogni caso, la vicenda di questa banca sembra stia giungendo al termine.

Dopo il primo tentativo - fallito - di metterla sotto controllo,
Wolfgang Petrisch ha organizzato un'altra operazione, questa volta riuscita. Nella notte del 17 aprile scorso le unità speciali della polizia militare britannica (SAS) sono entrate nel palazzo
della banca con l'intento di sequestrarne i documenti segreti. Per aprire la cassaforte i militari hanno dovuto utilizzare addirittura della dinamite. L'Hercegovacka Banka, dicono nella sede di Sarajevo dell`Alto Rappresentante della Comunità Internazionale, è stata un ottimo luogo di riciclaggio del denaro sporco (Dani, 20.04.2001).

Ora dunque la vicenda è terminata, e saranno nuove banche a seguire il sistema dei pagamenti in Erzegovina.


Il tribunale de L'Aja trasloca a Brcko?

11/05/2001 -  Anonymous User

Il destino del Tribunale internazionale per i criminidi guerra commessi in Rwanda ed ex Jugoslavia è sempre
più incerto. Il famoso Tribunale de L`Aja verràsostituito da una nuova Corte Penale Internazionale, mettendo così
in atto le decisioni della Conferenza di Roma svoltasi il 17 luglio 1998. Il nuovo Tribunale è però ancora in fase di organizzazione e nessuno sa quando comincerà a funzionare.

Nel frattempo, per Carla del Ponte - Procuratrice generale del Tribunale de L'Aja -
e per il suo team, il lavoro non manca.
Ultimamente, il processo di cui si parla di più èquello intentato al generale serbo Krstic, mentre
quattro settimane fa si approntava l'arresto diun altro serbo-bosniaco, Dragan Obrenovic, all'epoca
comandante della brigata di Zvornik (RepublikaSrpska).
L'arresto di Obrenovic è legato ad una registrazione
da cui risulta che il generale Krstic ordinò ad Obrenovic di uccidere tutti i musulmani di Srebrenica arrestati. Ad oggi, però, non è ancora stata
confermata l'autenticità della voce registrata.
Intanto in Bosnia si continua a credere che
proprio Obrenovic potrà confermare, o smentire, alcuni fatti riguardanti Srebrenica e le
responsabilità del generale Krstic, ma anche quelle diBiljana Plavsic e Momcilo Krajisnik.
Il processo contro i due ex-leader della Republika
Srpska viene portato avanti dal giudice Marc Harmon, lo stesso che realizzòil processo contro il generale croato Tihomir Blaskic.
Il procuratore generale de L'Aja considera i processi contro
Plavsic e Krajisnik molto importanti. Carla del Ponte ritiene infatti che questi due casi siano molto preziosi per la costruzione della piramide delle
responsabilità di Slobodan Milosevic.
Certo, mancano ancora tantissimi elementi per costruiretale piramide, ma sembra anche che la
stessa signora Del Ponte non sia ancora pronta peravviare il caso, forse anche un po' spaventata dalle
possibili responsabilità che ricadrebbero su di lei se il processo contro Milosevic non dovesse risultare ben fatto.

Intanto, si stanno accelerando i preparativi per l'inizio delle attività della nuova Corte Penale Internazionale. Quest'idea gode
dell'appoggio di Gran Bretagna, Germania, Canada e ultimamente anche di paesi come Francia e Iran.
Secondo alcune informazioni, non confermate, al L'Aja sono
già pronte 200 nuove cause da avviare.
Dato che il nuovo Tribunale Permanente si occuperà di processi relativi non solo a
crimini di guerra, ma anche di quelli legati a terrorismo,crimine organizzato e narcomafia, sembra che all'Aja non
si avrà tempo per risolvere tutti i casi in agenda. Ed èper questo che si parla della possibile organizzazione di
"una piccola Aja" con sede in Bosnia Erzegovina.
Inizialmente è stata proposta la città di Sarajevo ma, dato il parere contrario dichiarato dai serbi, oggi si ipotizza come possibile sede il distretto di
Brcko.
Esperti de L'Aja avrebbero il compito di controllare il funzionamento di questotribunale, così come procuratori e giudici de L'Aja
seguirebbero e controllerebbero tutte le inchieste avviate.


Banja Luka: i disordini si potevano evitare

08/05/2001 -  Anonymous User

Gravi disordini oggi 7 maggio, ndr a Banja Luka, la capitale della entità serba di Bosnia Erzegovina. Tutto era pronto per la prevista cerimonia per la posa della prima pietra della moschea Ferhadija, costruita nel XVI secolo durante la dominazione ottomana nella regione e rasa al suolo durante la guerra di Bosnia in quella che è stata la follia della pulizia etnica. Qui l'undici percento della popolazione era di origine musulmana. Oggi al loro posto profughi e sfollati serbi. Più di cinquantamila.
Troppo rumore per questo evento. I più importanti rappresentanti delle forze internazionali operanti nella regione e le massime autorità di Bosnia e di Repubblica Srpska erano presenti: l'ambasciatore americano Thomas Miller, il responsabile delle missione ONU Jaques Klein, il presidente dell'entità serba di Bosnia Sarovic ed il primo ministro Ivanic, il ministro degli affari esteri della Repubblica di Bosnia Erzegovina, il bosniaco Lagumdzija.
E quindi tanta gente. Bosniaci arrivati in pullmann dalla Federazione dove vivono come profughi e da dove sperano di poter rientrare nella propria città di origine, così come gli accordi Dayton sanciscono. E con loro i profughi e gli sfollati serbi, originari dalla Croazia e dal centro Bosnia. Molti di loro dovranno lasciare le abitazioni in cui hanno trovato rifugio durante questi anni di guerra e dopo guerra, per restituirle giustamente ai bosniaci che intendono rientrarvi.
Gli accordi di Dayton sanciscono che tutti i profughi e gli sfollati della guerra di Bosnia Erzegovina hanno il diritto di scegliere se rientrare nella aree di origine o restare dove attualmente stanno vivendo. Ma una politica definibile perlomeno miope della comunità internazionale sta di fatto aiutando solo chi intende rientrare. Così la maggior parte di quei cinquantamila serbi di Banja Luka sono abbandonati a se stessi. Non hanno né lavoro né assistenza, e vivono con l'incubo di essere sfrattati. L'unica scelta è tornare, ma questo è un percorso difficile sia da un punto di vista pratico - ad esempio per trovare lavoro o riavere la propria abitazione - sia da un punto di vista psicologico-emotivo. C'è paura.
Gente, bosniaci e serbi, quindi stanca e sotto pressione da troppi anni di difficoltà e di traumi: la guerra, la fuga, la vita senza una casa sicura, senza il lavoro, senza i servizi di base, senza un passato e con un futuro incerto. E così, ieri, è scoppiato il peggio. "Le tensioni accumulate in questi anni sono esplose" dice Zoran Baros, giornalista e responsabile delle pubbliche relazioni nel comune di Prijedor, a cinquanta chilometri da Banja Luka, seconda città della Republika Srpska e luogo simbolo per il rientro di musulmani e croati. E' stata impedita la manifestazione con il lancio di sassi e uova: contro gli internazionali, contro i politici, contro i bosniaci.
La polizia ha reagito cercando di fermare la folla, mentre il contingente militare internazionale (lo SFOR) è stato soprattutto a guardare. Per alcune ore gli ospiti internazionali e bosniaci sono rimasti bloccati nell'edificio di cultura islamica, fino a quando il presidente della Repubblica Srpska Sarovic ed il primo ministro Ivanic in persona sono andati tra la folla per permettere ai "prigionieri" di essere liberati.
Un comportamento che esplicita la gravità di questo episodio e delle sue conseguenze sull'immagine della Republika Srpska, della Bosnia e di questa regione agli occhi della comunità internazionale. Qui c'è bisogno di pace, di sicurezza, di fiducia. C'è bisogno di investitori internazionali che credano in uno futuro di normalità per questo paese. E questo evento è un passo indietro. "Nessuno aveva bisogno di questo evento" dice la sindaca di Prijedor Nada Sevo.
Doveva essere evitato e non lo si è fatto. Chi doveva evitarlo è soprattutto la comunità internazionale, che ha quantomeno sostenuto un'iniziativa così spettacolare nella capitale serbo-bosniaca. La convivenza non si impone con la forza ma va costruita "con la politiche dei piccoli passi", come dice Sead Jakupovic responsabile della associazione "per il ritorno e il rinnovamento di Prijedor 98".
Poteva essere evitato. Lo dimostra la realtà di Prijedor, città con cui da anni ormai coopera un coordinamento di associazioni ed enti locali del Trentino. Qui un quinto della popolazione non serba cacciata durante la guerra è già rientrato. E a Kozarac, un villaggio a pochi chilometri da Prijedor, sono state ricostruite senza incidenti ben quattro moschee. Il luogo scelto si è dimostrato intelligente, perché non troppo vicino al centro di questa municipalità che in passato è stata triste simbolo della pulizia etnica. Anche i tempi sono stati quelli giusti, perché la ricostruzione è iniziata dopo oltre un anno dall'inizio del processo di rientro dei musulmani. "Se l'obiettivo è il rientro", dice ancora Sead Jakupovic, "è importante porre attenzione ai sentimenti della gente, dare agli amimi il tempo di calmarsi".
"Creare occasione di incontro tra chi rientra e chi vive a Prijedor, creare luoghi di discussione pubblica, coinvolgendo i rappresentanti politici locali, i leader religiosi, gli intellettuali della comunità, le associazioni, la scuola. Fare informazione corretta." Ecco come promuovere la convivenza secondo le associazioni di donne di Prijedor riunitesi proprio in questi giorni per programmare le attività di sostegno al rientro in collaborazione con la Agenzia della Democrazia Locale di Prijedor, sostenuta dalla Comunità Trentina, dalla città spagnola di Cordoba e dal Consiglio d'Europa.
Chi ora paga la scelta affrettata compiuta dalla comunità internazionale a Banja Luka sono tutti i cittadini che sperano in un futuro di convivenza: i bosniaci, che ora devono relazionarsi a questo ulteriore trauma; i serbi, che si sono macchiati di un ulteriore "crimine" agli occhi del mondo.
Qui in Bosnia Erzegovina vivono persone. Cittadini che vogliono pace e futuro. Uomini e donne che stanno provando a vivere la propria esistenza. La strofa di una canzone recita: "non so perché né per cosa né come ma sono stanco". C'è bisogno di serietà e di intelligenza. Di una solidarietà matura.




Da Prijedor, a 300 chilometri dai confine dell'Unione Europea
Annalisa Tomasi, delegata della Agenzia della Democrazia Locale di Prijedor
© Osservatorio sui Balcani;


Sarajevo rinascerà con le olimpiadi?

06/05/2001 -  Anonymous User

Intervista a Muhidin Hamamdzic, Sindaco di Sarajevo